GRIZZLY IMPLODED
Tempo fa ci siamo occupati della loro ultima uscita in ordine di tempo, ma li seguiamo già da un bel po’. Ora, a freddo, ci è venuta la voglia di approfondire il percorso svolto finora, e per questo ringraziamo Francesco Gregoretti, Maurizio Argenziano e Sergio Albano per quanto ci hanno raccontato (dove non indicato, la risposta è da ritenersi “collettiva”).
Maurizio Inchingoli: Partiamo dall’ultima uscita su Sincope, Threatening Fragments From Our Boulders. Scrivevo di una sorta di pre-blues, per sottolineare di quanto fosse lontano nel tempo (senza tempo, per essere più precisi) il vostro suono. Che tipo di lavoro avete fatto per arrivare a tutto ciò? Quali le differenze, secondo voi, con le precedenti uscite?
Partiamo dal presupposto che troviamo sempre difficile descrivere la musica di Grizzly, forse perché è sempre difficile parlare di se stessi. A differenza di altre definizioni che di solito ci risultano forzate o strette, “pre-blues”, o musica senza tempo, è sicuramente una di quelle in cui ci ritroviamo maggiormente, e ti ringraziamo per questo. Se pensi al blues, al jazz, allo swing, fino ai canti degli schiavi, puoi andare sempre più indietro e arrivare a un punto in cui le etichette perdono di senso. L’improvvisazione è un inizio, di solito circoscrive l’interesse al “qui e ora”, mentre ci attirava di più l’idea di polverizzare queste catalogazioni. Quella di fare una musica senza riferimenti contingenti era un’esigenza di tutti e tre, ma non ce lo siamo mai detto esplicitamente. Altra esigenza comune era quella di fare una musica che esprimesse “fisicità”, e questo avviene soltanto attraverso un investimento fisico reale, sfiancandosi. Fin dal primo momento in cui abbiamo iniziato a suonare in trio, la nostra musica aveva queste caratteristiche, e probabilmente è l’unico modo in cui riusciamo a esprimerci insieme; quello che è mutato nel tempo sono state solo le tecniche sonore. Ogni nuova uscita è un caso a sé e prende un po’ vita da sola, non è né studiata né pianificata. Rispetto alle precedenti, forse “Threatening…” è più “quadrato” e allo stesso tempo vario.
Maurizio Inchingoli: La band è, diciamo, una continuazione di una sigla precedente (e tutti voi avete un passato in altri gruppi, e collaborazioni importanti). Come vi siete trovati a pensare di suonare assieme in questa forma?
Francesco: Sì, io e Maurizio stavamo già condividendo le esperienze Strongly e Oddly. Nel momento in cui Maurizio ha invitato Sergio per realizzare un nuovo progetto in trio, ci è sembrato naturale proseguire la saga…
Maurizio: Volevo vedere come riuscivamo a far suonare due chitarre elettriche insieme a una batteria, conoscevo Sergio da tempo ma non eravamo mai riusciti a suonare insieme, ed è stato naturale in quel momento proporgli di venire in sala a provare…
Tommaso Gorelli: Francesco, mi sembra sei quello che ha avuto il maggior numero di esperienze in generi diversi. Penso agli One Starving Day, gruppo “metal-melodico” per così dire, e batteristi con radici jazz non sono nuovi nel campo metal (penso a Sean Reinert, ad esempio) ma il tuo lo considero un caso ancora più al limite, visto che da poco hai anche prestato le tue pelli agli Architeuthis Rex. Però ti sono care al tempo stesso “scuole” di batteristi diciamo più radicali come Will Guthrie o Han Bennink. Come riesci a diversificare il tuo approccio alla materia in base a questi “generi”?
Francesco: Il mio approccio alla batteria non è tanto di tipo estetico. Il mio contributo musicale è più il risultato dell’espressività del momento, di una rappresentazione degli stati emotivi e delle relazioni con le altre persone coinvolte, che una scelta di “genere”. Una rappresentazione che avviene attraverso uno stile interpretativo personale di tecniche sulla batteria più o meno riconducibili a quelle tradizionali. Il mio percorso è più lineare di quello che invece potrebbe sembrare ascoltando dischi così diversi tra loro nello stesso momento, così probabilmente se oggi suonassi One Starving Day, sarebbe sicuramente diverso. Nello specifico: con Architeuthis Rex alcune parti le ho scritte, mentre altre sono improvvisazioni.
Tommaso Gorelli: Maurizio, a questi excursus piuttosto sui generis anche tu sei vicino, no? Mi riferisco ai Missselfdestrrruction. Come si è diversificato anche il tuo di approccio?
Maurizio: Missselfdestrrruction è stato il primo gruppo con cui ho suonato. Siamo partiti con dei pezzi forse definibili “post-punk”, ma negli ultimi tempi cercavamo sempre più strutture meno rigide o brevi momenti totalmente improvvisati. Terminata quell’esperienza, con Massimo e Mario negli A Spirale abbiamo radicalizzato alcuni aspetti di ricerca sonora, mantenendoci in bilico tra “free-form” e “barbarous-jazz-core” (cito definizioni altrui…), talvolta appoggiandoci a strutture minime. I vari progetti con Francesco, o le altre collaborazioni più o meno continuative, sono maggiormente orientati verso l’improvvisazione, che però, come secondo me avviene con Grizzly, assume a volte forme che sembrano pre-definite, che sono invece frutto soltanto della pratica. Non è mia intenzione diversificare preventivamente il mio modo di suonare quindi, il mio approccio rimane quello: cambiano le persone, i contesti, e in risposta a questi il suono prende sfumature diverse.
Maurizio Inchingoli: Quando penso ai Grizzly Imploded mi vengono in mente un paio di cose: il free-rock misto al noise di marca Novanta e quella “ricerca” che è da sempre legata a una realtà importante come Napoli. Aggiungo che secondo me se ne scrive sempre troppo poco (ma una bella pubblicazione come Solar Ipse ha parlato già di voi). Ora, senza star lì a far tediose differenze col solito nord “operoso”, devo dire che quando per esempio ci si approccia ad A Spirale, Retina.it e cose affini, mi viene da pensare che questa non sia affatto una città (e una regione) legata soltanto alla cosiddetta musica “neomelodica”, anzi…
Riguardo l’accoppiata Napoli–melodia: è una fiction, un’immagine ideale esportata per comodità. Napoli è sempre stata una realtà molto viva nell’arte in generale e nella sperimentazione. Tutte le iniziative artistiche storiche a cui ci stiamo riferendo sono rimaste sempre in secondo piano per mancanza di supporto, e non hanno lasciato strutture e forse questa cosa, se da un lato ti può creare difficoltà a livello organizzativo, dall’altro ti lascia la possibilità di sperimentare nel modo più libero possibile. Qui è nato tantissimo del “Pensiero”: Campanella, Benedetto Croce, Giordano Bruno, e allo stesso tempo c’è anche un liberarsi del “Pensiero” stesso. Tutto ciò rappresenta l’essere vitale della città, la sua inclassificabilità e la sua bellezza.
Maurizio Inchingoli: Propongo una piccola “deviazione”: vi piacciono artisti come Alan Sorrenti, Luciano Cilio, Roberto De Simone? Ho sempre immaginato la vostra città come una grande “culla” dove poter, appunto, crescere e sperimentare (nelle maniere più disparate), come un posto capace di accogliere dropout e gente poco allineata…
Ci piacciono in modo diverso. Riguardo Napoli è esattamente così, ed allo stesso tempo non lo è: qui c’è anche un individualismo che sfocia nella prevaricazione, vedi il caso di Cilio stesso, così come c’è un’assoluta umanità e attitudine al sacrificio e a lavorare sodo. La realtà è sempre molto complessa…
Maurizio Inchingoli: Domanda che pongo sempre a tutti quelli che intervisto. Ditemi come e quando siete partiti a suonare, e dei vostri personali gusti musicali. Immagino vi abbiano formato, ed in un qualche modo aiutato a capire che tipo di musica avevate in mente di suonare, no?
Maurizio: Ho iniziato a suonare a 18 anni, prima non ne avevo mai sentito l’esigenza, e tutto a un tratto è diventata quasi una necessità primaria.
Francesco: Che invidia! Io ho iniziato a suonare molto più tardi, forse avrò avuto 25 o 26 anni, non lo ricordo nemmeno di preciso. La musica mi aveva sempre appassionato, e anche per me tutto ad un tratto si è manifestata la necessità di esprimermi a questo modo. Il mio grande rimpianto è quello di non aver iniziato prima. I nostri gusti musicali con il tempo sono diventati i più disparati possibili.
Maurizio: Ciò che dici è esatto, ma anche quello che non ci piace finisce per influenzarci, permettendoci di definire quello che vogliamo o non vogliamo suonare.
Sergio: Io ho incominciato come tutti credo, con i primi gruppi formati con gli amici. Avendo due fratelli più grandi mi arrivava quello che ascoltavano loro (per la maggior parte musica leggera italiana da radio), col risultato quindi che la musica mi faceva schifo. Per fortuna c’era mio padre che mi faceva ascoltare i dischi d’Opera: Puccini, Rossini, Bellini, Verdi. Al primo ascolto di “Waters” di Uzeda fu come prendere una boccata d’ossigeno: era rinfrescante. È difficile da spiegare, ma li sentii subito vicini e molto importanti per me; così come furono molto importanti le trasmissioni notturne di Radio Rai, dove ascoltavi tante cose diverse. Un altro aspetto importante erano i luoghi, locali e negozi di dischi: quando non si suonava, si andava da Flying Records o da Demos ad ascoltare gli album che venivano dall’estero. A Napoli poi tra le altre cose c’erano moltissimi jazzisti, si facevano jam improvvisate in casa, nelle feste. Io ho sempre suonato con tutti, non ho mai fatto distinzioni di “genere”. Non ricordo quando ho ascoltato per la prima volta John Coltrane, ma è come se fosse stato sempre con me, così come Cecil Taylor, Sun Ra, Charles Mingus, Nina Simone, Nehemiah Curtis “Skip” James, Mississippi Fred McDowell, Thelonious Sphere Monk, forse il mio musicista preferito in assoluto. Loro sono stati e sono molto importanti anche per una questione etica. Altra influenza enorme per me l’ha avuta il cinema: divoro tantissimi film, e i libri su Rossellini, Antonioni, Tarkovskij o di Truffaut su Hitchcock sono stati fondamentali per me, ho cercato di applicare al suono molte idee di teoria cinematografica.
Tommaso Gorelli: Tu Sergio sei arrivato quando Maurizio e Francesco erano già rodati negli Oddly Imploded. In che razza di “degenero” ti sei ritrovato?
Sergio: Capisco il “degenero”, come dici tu, ma fu una cosa molto naturale e spontanea: non ci fu niente di calcolato o voluto, cercavo soltanto di fare un lavoro di “togliere” e non “mettere”, dare risalto ai timbri, dare ampiezza ai volumi così come ai vuoti. Ma te lo dico ragionandoci adesso mentre scrivo. La cosa che mi è piaciuta subito è che è tutto suonato spontaneamente: condividi un momento con chi sta suonando con te e con chi ti ascolterà, senza pre-costruzioni di sorta, e questa è una cosa importantissima. Anche chi ascolta deve sacrificare qualcosa, finalmente. Inoltre c’è il concetto di trascendere lo “strumento” inteso come mezzo armonico in se stesso: provocare i suoni ma non essere solo una “fonte” sonora, non mi piace l’estetica del “rumorino” che diventa comodità. Poi c’è il fatto che il suono elettrico è ancora molto giovane, gli strumenti elettrici sono stati introdotti da relativamente poco tempo, hanno enormi potenzialità (penso alla “cimatica”, per esempio) tutto questo coinvolge in pieno la mia visione di Grizzly. Ribadisco poi l’esigenza che il mio bisogno prima di tutto è assolutamente fisico. Se non c’è reale esperienza questo esce fuori e stai mettendo semplicemente i suoni in un angolo. Altro aspetto molto importante: ogni volta che ci vediamo non decidiamo mai cosa e come suoneremo, sia in sala che dal vivo, e questo, unito al fatto che la quotidianità ti trasforma, rende ogni nostro incontro per forza “diverso”. Scherzando tra di noi, all’inizio dicevamo di come io ero un grizzly liberato da loro due dalle catene.
Maurizio Inchingoli: Riuscite a conciliare la vita quotidiana con l’attività di registrazione e quella legata ai concerti? Mi raccontate di che tipo di impressioni ricevete di solito quando siete su di un palco?
Come Grizzly non abbiamo un’intensa attività live, mentre le registrazioni avvengono ogni volta che ci riuniamo per suonare, quindi il tutto si concilia facilmente con le esigenze della vita quotidiana. Difficilmente ci capita di suonare su un palco vero e proprio. In ogni caso è molto difficile dire che impressioni riceviamo. Spesso il pubblico si trova davanti qualcosa di inaspettato, e questo unitamente al fatto di non sapere noi stessi cosa aspettarci dal nostro live, ci pone sul suo stesso “piano”.
Maurizio Inchingoli: Avete rapporti con altre band o etichette? Ci dite cosa ascoltate ultimamente?
Francesco: Abbiamo rapporti più o meno quotidiani con i musicisti di Napoli, e con quelli con cui ognuno singolarmente ha avuto la possibilità di collaborare.
Maurizio: Come Grizzly finora abbiamo collaborato con Tetuzi Akiyama e Pascal Battus, e sono state sicuramente entrambe delle esperienze formative importanti, in maniera diversa per ognuno di noi, ma anche collettivamente, dandoci delle indicazioni sul tipo di suono che Grizzly poteva sviluppare in situazioni “limite”.
Sergio: Come etichette siamo molto legati a Sincope. Massimo è una persona davvero in gamba, è stato uno dei primi ad innamorarsi musicalmente di Grizzly, ci siamo trovati da subito.
Francesco: La vicinanza geografica con Sincope ci ha consentito di stabilire un rapporto più stretto rispetto ad altre etichette estere che hanno pubblicato qualcosa di nostro, e questo ci ha fatto sentire anche più supportati; abbiamo anche condiviso un live con Wound, uno dei progetti di Massimo.
Sergio: Sono molto legato anche alla KSV di Tom Smith e a Scissor Tail Editions di Dylan Golden Aycock; come ascolti in questo periodo mi sono rifugiato nei classici, “Silent Tongues” di Cecil Taylor, “Mesopotamia” di Munir Bashir, la discografia degli Universal Order Of Armageddon. Ultimamente sono ossessionato dai Master Musicians Of Joujouka, da Hard Again di Scott Tuma, e dal disco Antico Adagio di Lino Capra Vaccina.
Maurizio: Ultimamente non sto ascoltando tante cose nuove, ritorno con più soddisfazione su alcuni “classici”, come possono esserlo Derek Bailey o Bruce Russell. Poi in questi giorni ho (tardivamente) scoperto Daniel Johnston, le prime cassette, il duo con Jad Fair, sto ascoltando solo quello…
Francesco: Anche io ho recuperato alcune cose del passato che mi hanno molto colpito positivamente, per esempio Ákos Rózmann, Ivo Malec, e Baudouin Oosterlynck.
Tommaso Gorelli: Penso al segno che ha lasciato “Altera!” su tutta la vostra “scena”. Quest’anno purtroppo però si è vista la definitiva dipartita del festival, anche se il recente “Multiversale” mi sembra abbia un po’ raccolto l’eredità spirituale. Esiste la possibilità di avere presto altri eventi di questo tipo?
“Altera!” e “Multiversale” non hanno molto in comune, se non per il fatto che gli “alteri” di Napoli hanno dato una mano ai “multiversali” nell’organizzazione dei vari concerti e nell’interazione con la realtà locale. “Altera!” ha sicuramente lasciato un segno, ed è solo uno dei risultati di un’attività condotta costantemente nel corso degli anni volta a stabilire relazioni con altre realtà attraverso la pratica musicale. Altri eventi avvengono costantemente, ma attualmente non c’è la necessità di raggrupparli sotto un cappello comune.
Maurizio Inchingoli: Nuove uscite per il futuro ne avete?
Abbiamo diverso materiale registrato, ma quello a cui abbiamo dedicato recentemente più attenzioni, che è più vicino ad essere considerato un “disco”, è il materiale registrato con Battus. Comunque non sappiamo ancora se e con chi uscirà.