GREG FOX, The Gradual Progression
Greg Fox, da New York, è la straripante macchina ritmica di formazioni estreme come Liturgy, Guardian Alien, Zs, oltre che collaboratore in studio e talvolta live di personaggi anche piuttosto dissimili come – tra gli altri – Ben Frost e Hieroglyphic Being. Eppure le sue più recenti pubblicazioni rimandano a una galleria di influenze che dal free-jazz degli anni d’oro conduce alle attuali esplorazioni percussive favorite dal progresso tecnologico. È lo stesso Fox a “svelarsi”, citando Don Cherry e Pharoah Sanders come principali ispirazioni del nuovo album, intitolato The Gradual Progression. Soprattutto sottolinea il nome di un batterista che, mezzo secolo fa, ha riscritto le regole dello strumento e non solo: stiamo parlando di Milford Graves, un gigante che a oggi Fox considera suo mentore. I due si sono conosciuti nel 2013, quando il primo ha invitato il secondo nel suo studio. Qui Fox ha avuto modo di avventurarsi nella pioneristica (e dai risvolti extra-musicali) ricerca che affaccendava Graves in quel periodo: grazie a una tecnologia da questi appositamente sviluppata, si trattava di ricavare musica a partire dai ritmi naturali del battito cardiaco. Questi esperimenti bio-sensoriali stanno alla base del primo disco in solo di Fox, uscito nel 2014, che non a caso si intitola The Mitral Transmission.
Date le premesse, dobbiamo allora chiederci se Greg Fox appartenga o meno alla sempre più folta categoria, su queste pagine già trattata in varie occasioni, dei cosidetti “batteristi espansi”: probabilmente no, se pensiamo al fatto che in The Gradual Progression fanno capolino i contributi di diversi strumentisti; ma forse sì, se al contrario ci sofferiamo sul vero e proprio nucleo di questi sei brani, vale a dire un nuovo dispositivo hard/software chiamato Sensory Percussion. Come spiega la casa produttrice Sunhouse, Sensory Percussion permette di mappare le varie zone di uno stesso tamburo, per poi assegnare a ognuna di esse un diverso suono prodotto o registrato in precedenza, oppure un sample definito dall’utente; in pratica, sarebbe la naturale evoluzione dei trigger, quelli che ad esempio il torinese Davide Compagnoni, in arte Khompa, ha utilizzato insieme a Max For Live per il suo recente The Shape of Drums To Come. È come se il Sensory Percussion convertisse la batteria in un gigantesco controller MIDI, suggerisce la rivista americana The Fader; di conseguenza le soluzioni sono varie e imprevedibili. Ed imprevedibile è l’intero The Gradual Progression. Più volte ci si scopre confusi, nella speranza spesso vana di risalire alla sorgente di ciò che in un dato frangente udiamo. Stiamo ascoltando una tastiera o una chitarra aggiunta? Oppure no, ed è invece lo stesso Fox con le sue diavolerie, con queste percussioni per così dire “aumentate”?
Ben poco resta dei trascorsi in ambito metal, se non quella energia espletata ad esempio nel batterismo sostenuto di “My House Of Equalizing Predecessor”, tra bleep puntillistici e distese di synth, oltre a qualche blast beat e a un bel po’ di doppia cassa. Più in generale il disco procede per spiazzamenti, alternando/sommando un drumming irrequieto, potente, a strati e sub-strati di suono digitale. “OPB”, in chiusura, prende le mosse da un minuto di cristalli new-age, ma poi sfocia in un incedere motorik che alla fine cambia e si fa via via più complicato e delirante. Nel secondo brano, “Earth Center Possessing Stream”, c’è addirittura la morbida eleganza jazz di un sax tenore, per uno dei momenti meglio riusciti dell’album; lo stesso sassofono che si fa turbare dai toni orientali della successiva “By Virtue of Emptiness”. Meno efficace – si direbbe quasi irritante e fuori luogo – è invece il fake-funk di “Catching An L”, stravaganza nonsense con deriva vagamente ottantiana ed Herbie Hancock (periodo Future Shock) seduto sul sedile posteriore.
The Gradual Progression esce su RVNG Intl. ma è un disco fusion, in qualche modo; una fusion talmente futuristica da sfiorare l’idea iperrealistica del super-performer, quello che amplificando per artificio la produttività del proprio strumento finisce per scavalcare le limitate capacità umane (*). È anche per questa ragione che, volendo azzardare una suggestione e nulla più, diremmo che il disco di Greg Fox non farebbe cattiva figura nei cataloghi di etichette di nuova generazione come Orange Milk o Squiggle Dot.
(*) Il discorso sull’iperrealismo in musica è approfondito in questo articolo di Dwight Pavlovic, uscito sul portale americano Decoder.