GODFLESH, Post Self / JK FLESH, Exit Stance
Godflesh è già icona, storia, totem, presenza nell’immaginario collettivo. Non è necessario possedere qualunque cosa uscita dopo la reunion, tutto quello che ci serve sapere, anche per formare la nostra band, sta nei Novanta del secolo scorso.
Questa dichiarazione di Jacob Bannon, cantante dei Converge e curatore del Roadburn 2018, spiega come in questi anni una generazione di musicisti “successiva” ai Godflesh abbia deciso di celebrarli e dare a loro ancora più importanza, il che forse è uno dei motivi per cui sono tornati: si prendono un po’ di gloria, danno l’opportunità ai più giovani di ascoltarli.
Precisato quello che c’era da precisare, Post Self è un discone: alienato, meccanico, incazzato malamente, parco di contaminazioni con la cosiddetta musica elettronica che non siano (grosso modo, non si può tagliare tutto con l’accetta) quelle iniziali e fondamentali per l’identità del progetto così come la conoscono anche i non fan, quindi niente breakbeat o drum’n’bass, giusto un remix dub.
Broadrick indovina i riff e i beat, a volte più industrial, altre volte più tribali, mentre non riesco a ricordare di aver mai pensato che il suono del basso di GC Green fosse così spesso e imponente. Non stiamo ascoltando un vecchio che insegue patetico se stesso da giovane (tipo U2 di How To Dismantle An Atomic Bomb, tanto per dare l’idea semplice) o che non si rende conto di assomigliare a qualche allievo/epigono (e ce ne sono infiniti): sì, a volte sembra che JKB voglia essere più cattivo di com’era, ma – ed è molto soggettivo – si ferma sempre un attimo prima dell’autoparodia, senza dimenticare che qui c’è di sicuro tanta rabbia, ma si incontrano anche due o tre pezzi atmosferici molto malati e davvero niente male, basati al solito su pochissimo, ma un pochissimo costituito da un’ottima soluzione a livello di suoni o di beat.
Arriverà qualche illuminato a dirvi che siete dei metallari un po’ naif ad ascoltare Post Self, che è già stato tutto detto meglio prima o che in passato sono stati presi ben altri rischi: non c’è nessun problema, è Natale, fatelo contento, ditegli che ha ragione lui.
A nome JK Flesh Justin Broadrick ha indovinato una manciata di tracce sparse in una manciata di uscite. C’è una grande paura, che è quella di confrontarsi nuovamente con la frammentazione e la discontinuità di Jesu, un nome col quale ha realizzato cose da avere assolutamente (il primo album, direi anche Silver) e altre interlocutorie/ridondanti. È subito incoraggiante il fatto che sia un’etichetta come Downwards a mettere la faccia su questo ep, dopo che ha comunque azzeccato nel 2016 la scelta di pubblicare un 12’’ di JK Flesh con la validissima, enorme e mega-dub “Nothing Is Free” (c’è anche Final in catalogo). Anzitutto Exit Stance non ripete il passato: è più techno, più dritto (mai troppo), fa riflettere sulle parentele col resto della scena dance di Birmingham, ma in qualche modo conserva “la pacca”, quella per cui i fan di JKB seguono anche quest’incarnazione, perché capiscono che è diventato un grande perché è sfaccettato. A questo riguardo, non essendo io in grado di andare in profondità su certi argomenti, mi limito a scrivere che preferisco il lato B del vinile, più impattante e scuro del lato A, con una “Caveman” che fa pensare al Mick Harris di quest’anno, tornato devastante col progetto Fret (anch’esso apparso su Downards mille anni fa). Non voglio far passare quest’uscita per un capolavoro, ma anche in questo caso (sperando non diventi di nuovo la regola di comodo) JK Flesh si porta a casa almeno un punto.
Tracklist
A1 / 1. Exit Stance
A2 / 2. Motivated By Jealousy
B1 / 3. Bullied By Love
B2 / 4. Caveman