GOATSNAKE, Black Age Blues
Un nuovo disco dei Goatsnake è già in sé un evento, vuoi per lo status di culto che da sempre circonda la band e i suoi membri, vuoi perché interrompe un vuoto durato ben quindici anni, tanto il tempo trascorso dall’album Flower Of Disease. Purtroppo, come si sa bene, spesso questi ritorni sono forieri di prove fiacche e fuori tempo massimo, tentativi di riprendersi un trono ormai saldamente in mano a nuovi contendenti: in alcuni casi ci si ritrova di fronte a copie sbiadite dell’originale o al contrario a patetici tentativi di risultare attuali. Sono davvero rari gli esempi di band che tornano con un lavoro realmente in grado di guardare negli occhi i suoi predecessori o, addirittura, spostare l’asticella delle quotazioni del mostro sacro di turno. Che Black Age Blues sia la mosca bianca perfetta appare chiaro sin dall’apertura con l’irresistibile “Another River To Cross” (uno dei molti potenziali futuri classici presenti) e il procedere dell’ascolto non fa che confermare quest’impressione. Del resto, il titolo dice già tutto e ritrae alla perfezione un lavoro in cui suoni potenti, anzi capaci di staccare la carne di dosso, nonché dotati di una patina nera come la pece, si sposano con una forte componente blues. In realtà, il blues è in buona compagnia, in quanto non è raro trovare tra le pieghe delle canzoni un nucleo soul, così come il migliore rock, o più che altro come questo dovrebbe essere senza apparire una formula vuota e addirittura fonte ulteriore di immobilismo per ascoltatori addomesticati.
Se le chitarre e la sezione ritmica sono il motore e la spina dorsale dei Goatsnake, la voce di Pete Stahl è a dir poco sugli scudi e dimostra come possa fare la differenza, a tratti vengono in mente addirittura gli ultimi lavori degli Scream, gruppo mai troppo rimpianto dell’epopea Dischord in cui lui militava assieme al fratello, tanto per dire quanto sia grande la tavolozza utilizzata questa volta dai Goatsnake. Proprio la varietà dei linguaggi presenti fa di Black Age Blues un disco difficile da classificare e da incasellare. Ma in realtà anche semplice da assimilare e amare, perché è il frutto di musicisti di assoluto valore che giocano con i suoni senza fossilizzarsi e, soprattutto, tenendo sempre ben presente la forma canzone. Per questo, alla potenza dei suoni e alle classiche influenze doom e stoner, si affiancano cori e linee melodiche irresistibili, quasi radiofonici, sempre se vivessimo in un mondo in cui il vero rock avesse ancora diritto di asilo nei gusti del grande pubblico. Non si tratta, quindi, di musica estrema, o almeno non solo, ma di un album in cui le radici si sposano con il mood anni Novanta che rese celebri label come la SST e la Sub Pop e con una sensibilità tutta attuale che spazza via ogni effetto revival o, peggio, nostalgia, il tutto alla luce dei tratti caratteristici che hanno fatto dei Goatsnake un nome di culto. Se a quanto detto finora si aggiungono piccoli cammei offerti da ospiti chiamati ad impreziosire il banchetto con parti di chitarra acustica, piano, violini e cori (ma senza appesantire mai troppo l’insieme), sarà facile intuire come questo sia un ritorno da incorniciare e già da ora un serio pretendente alle prime posizioni nella classifica di fine anno. Meglio di così non ci si poteva aspettare, qui le chiacchiere stanno a zero.