GOAT, Oh Death
Della serie: non ci speravano più nemmeno loro. Dopo una scia di indizi lasciati l’anno scorso, tra cui la pubblicazione di Headsoup, raccolta di rarità e b-sides, e una manciata di show in giro per l’Europa, i Goat sono tornati per reclamare la sovranità sulla scena psichedelica del Vecchio Continente.
Il silenzio stampa di questi anni e le timide comparsate qua e là (i progetti di Goatman e Capra Informis, i cameo di She-Goat) avevano fatto pensare che l’estrema riservatezza della band svedese si fosse risolta per sempre: Oh Death arriva a spazzare via di colpo i timori di un possibile split. Squadra vincente non si cambia, perciò i Goat ci impartiscono ancora una dieta fatta di hard, zam-rock, blues maliano, spiritual jazz, ethno-folk, proto-metal: i singoli “Under No Nation” e “Do The Dance” strizzano l’occhio al funky spurio e ai groove africani, mentre “Chukua Pesa” salmodia tra mandolini e distorsioni, “Goatmilk”, “Blow The Horns”, “Soon You Die” procedono sornione tra tribalismo, wah wah, fuzz, riff e fiati, mentre il finale è psichedelia acida con “Passes Like Clouds”.
Både roligare och mer fundersam: questa la definizione che uno dei membri, GoatApe, dà di Oh Death nell’intervista con il sito svedese Hymn.se: “allo stesso tempo più divertito e più contemplativo”. C’è effettivamente un bilanciamento tra le sferzate hard di World Music, la psichedelia di “Commune” e l’animo terzomondista di Requiem: Oh Death risulta come il lavoro più rappresentativo e sintetico delle varie anime dei Goat, un ottimo biglietto da visita, esauriente nella sua mezz’ora scarsa, ma allo stesso tempo capace di generare curiosità sull’opera omnia della band. Che poi, se non la conoscete già, uscite per strada, comprate un disco, informatevi, ascoltate, leggete, per la gloria eterna delle capre e dei loro travestimenti.