GOAT (Jap), 20/11/2016

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Area Sismica, Ravaldino In Monte (FC).

Dopo i Kukangendai, un’altra cometa è (fugacemente) passata sotto gli archi del nostro cielo occidentale, sempre all’Area Sismica, vicino Forlì, in una battistiana domenica di novembre. Tre ore di macchina in solitaria per il vostro cronista, ma ancora una volta è valsa la pena venire in questo locale per cui non si sa davvero quali altri elogi spendere, merito anche della collaudata ed ottima formula del concerto intorno alle 18, che permette di rincasare ad orari degni ai volenterosi arrivati da lontano.

Che musica ci propone il quartetto di Osaka? Come da titolo del loro disco del 2015, Ritmo & Suono. L’incipit con “New Games”, dal lavoro eponimo, è paradigmatico: il basso e la chitarra pulsano sugli armonici, incastrandosi in forme geometriche sbilenche ma perfette, sino a confondersi l’uno nell’altra, mentre la batteria asciutta e minima (rullante, un charleston aperto e la cassa, nient’altro) mette ordine dettando i movimenti, sempre coordinati al millesimo. Poi entra un sax che non è un sax, ma una (metal) machine music. La bocca dello strumento è infatti occupata da una banalissima bottiglietta di Coca-Cola e il medesimo è collegato a pedali che ne deviano il suono sino a renderlo altro. Di sax espansi ne abbiamo già sentiti, e il primo pensiero va al solo-project dell’ottimo e nostrano Piero Bittolo Bon, Spelunker, ma la scelta molto azzeccata qui è di applicarlo in un contesto di musica reiterativa, matematica e minimalista. Quasi come fosse techno suonata.

Non ci sono linee melodiche, riff: solo ritmo, ritmo e suono, come detto in apertura. Come dei King Crimson liofilizzati in una bustina di té bancha o una versione trip-hop dell’ossessione post-umana di Ryoji Ikeda. Tutto suona molto smooth (smooth ma non languido, di umano anche qua c’è poco),

ed è eseguito a volumi bassi ( Se hai ragione non hai bisogno di gridare, dice il proverbio Zen): per immaginare il live di oggi bisogna spogliare l’idea ridondante del math da qualsiasi enfasi rock. Le visioni dei quattro sono funzionali, nitide, bianche, non ci sono fiammate, crescendo, cadute, salite, muscoli o sentimenti, non c’è carne: è la pura esposizione di una forma, intricata eppure semplicissima. La realizzazione maniacale di una singola idea, uno shangai al contrario dove i bastoncini (i battiti), invece di essere tolti, vengono via via aggiunti. Progressivamente la cadenza detta il meccanismo dell’ipnosi e ci si ritrova a muovere il capoccione manco stessimo ascoltando della black music. Forse siamo alla radice (quadrata) del ritmo e allora è facile accostare i Goat ai Ronin dello zurighese Nick Bartsch e al loro zen funk poliritmico. Solo al terzo pezzo (in tutto saranno quattro, per tre quarti d’ora di live, implacabile ed austero) si cambia completamente dimensione e si parte per un viaggio dentro un muro di suono alla Phill Niblock, perfetto per decomprimere dopo tanta algebra in polvere. Chitarrista e sassofonista si concentrano sui synth, il basso va di bordone con l’e-bow: ladies and gentlemen, we are floating in space. Alla fine, nonostante le richieste del pubblico, che è preso decisamente bene, non viene concesso nessun bis.

Lo Shinkansen, il treno-proiettile giapponese, è passato fulmineo, silenzioso ed esatto. Per fortuna abbiamo fatto in tempo a prenderlo.

Grazie ad Ariele Monti per le foto.

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