GIUSEPPE DORONZO, Goya
La Puglia, assieme al Friuli, si conferma una delle terre più fertili per la musica creativa di casa nostra: musicisti come Gianni Lenoci a Monopoli, Francesco Massaro a Castellaneta, il festival di Conduction Rec a Conversano (presto su queste pagine racconteremo il primo disco nato da quell’esperienza), Vittorino Curci a Noci.
Alla periferia dell’impero spesso le cose si fanno più interessanti. Giuseppe Doronzo, classe 1987, è natio di Barletta, ma vive da qualche anno in Olanda. Goya, recita la cartella stampa, è una parola di lingua Urdu che descrive uno stato d’animo a metà tra realtà e immaginazione. Lo stesso in cui mi trovo io oggi, dopo aver appreso della morte di una persona cara. Sono sette canti del trapasso questi esercizi di meditazione zen per baritono solo, nei quali il musicista racconta di sentirsi come il tramite che li porta alla luce: come diceva Carmelo bene, “io non parlo, ma sono parlato”.
Vengono in mente i canti tibetani, o le vertigini di certo Phill Niblock, suonato qui però pianissimo, come a non voler disturbare divinità iraconde. Un lavoro che non batte strade inesplorate ma ha il pregio di suonare vivo e vero, pur praticando una lingua che sembra più avere a che fare con un rito di passaggio, con l’annuncio di una sparizione. Sarà sicuramente la suggestione dovuta al momento in cui scrivo queste righe, ma queste sette tracce mi sembrano altrettanti perfetti rituali per celebrare il poco che siamo, il troppo che diciamo e il nulla a cui torneremo.
Un lavoro coraggioso per un musicista che, pur non inventando niente, dimostra di non avere alcun timore nell’affacciarsi, in completa, nuda solitudine, sul precipizio del silenzio.