Giulio Stermieri e lo spazio per l’imprevedibilità
La vita a volte ti lascia davanti a strani incroci, dove conosci persone e musiche che da anni stanno facendo percorsi differenti dai quali sei abituato ma che rientrano prima poi in un’orbita condivisa. Importante in quei momenti gettarsi su questa musica, che non sapremo se altre possibilità del genere ci saranno in futuro. Con “Hesychia” prima e l’uscita di Fort Da poi siamo entrati pian piano nell’universo sonoro di Giulio Stermieri, di formazione pianistica, da più di dieci anni attivo in diversi progetti molto variabili ed eterogenei. Attorno ad un’idea jazzistica come Foursome ed Aparticle, pop come Tristitropici ed esotici come Yabai & Adele Altro, solo per citarne alcuni. Ma quando si decide di fare un passo avanti e lavorare su sé stessi, per un debutto in prima persona? Abbiamo provato a capirlo in un colloquio telefonico, scoprendo questo e molto altro ancora. Si ringrazia l’intercessione di Jonathan Clancy e di Maple Death tutta, etichetta bolognese che raramente sbaglia cavallo sul quale puntare.
Ciao Giulio! Come stai? Ho visto che il mese prossimo sarai dalle nostre parti per suonare, con Tristitropici a Losone l’11 di dicembre, ad un quarto d’ora circa da casa mia, bello vedere che alcune cose girano anche qui in Canton Ticino! Oggi siamo qui invece per te e per il tuo primo album appena uscito per Maple Death: Fort Da. Debutto solista ma sono moltissimi anni che suoni: di che annata sei?
Giulio Stermieri: Sono del 1988, ho compiuto 35 anni quest’anno. Il primo disco al quale ho partecipato credo sia uscito nel 2012, quindi fanno 11 anni, ormai.
Conoscendoti come autore di Fort Da sono andato solo in un secondo momento a ripassare la tua discografia. Ho scoperto che ad esempio l’anno scorso hai fatto un album con Adele Altro (a nome Yabai ed Adele Altro) e diverse cose che dovrò esplorare… avresti voglia di raccontarti un pochino a noi, per renderci partecipi della tua storia?
Sì, perché in realtà prima di Fort Da mi sono sempre mosso nell’ambito del jazz diversamente declinato, impro anche (soprattutto nel trio con Giacomo Marzi e Massimiliano Furia che abbiamo registrato live a Parma), se no sono state comunque formazioni jazz, considerando che vengo da quel mondo. Ho studiato pianoforte jazz e quello è stato un po’ il primo ambiente nel quale mi sono mosso e poi nel 2019 ho fatto questa residenza ad Arti Vive Festival nelle mie zone a Soliera, organizzata da Giorgio Spedicato aka Machweo, che è un producer più ibrido, dove ho conosciuto appunto Adele, Dario e Antonio, coi quali ho fatto poi Tristitropici. È stato un po’ un punto di svolta per me, perché diciamo che ho sempre ascoltato anche cose diverse però il mio studio e la mia ricerca sono sempre state nell’ambito jazz anche per le mie frequentazioni di musicisti. Ho quindi sempre avuto il desiderio di cercare di riportare nella mia musica quegli spunti di elettronica che mi piacevano, l’ambito del post-rock che ho sempre molto ascoltato. Dal 2019 sono riuscito, lavorando con Adele e coinvolgendola nel mio quartetto, in una collaborazione che è andata poi anche nella direzione opposta, con dei miei interventi di tastiere sui suoi lavori, e con la mia partecipazione nella band che farà il tour del suo disco l’anno prossimo. Poi con Laura Agnusdei, con cui ci siamo rivisti nell’ambito di Soundtracks l’anno dopo (e lì abbiamo messo insieme collettivo Effetto Brama per un discorso di sonorizzazione di film muti dal vivo). Quindi Tristitropici, in assoluto la mia prima band non jazz anche proprio come modalità di scrittura, un modo di lavorare che non avevo mai frequentato se non nella mia band del liceo, quindi saletta, portare ciascuno delle idee e lavorarci insieme… Tutto questo per arrivare al discorso di Fort Da, dove una serie di coincidenze mi hanno portato. Ero interessato ai campionatori, roba che non avevo mai studiato ma che continuava a intrigarmi: in una sonorizzazione fatta con Laura avevo intravisto come ci lavorava, trovandolo interessante. Quindi mi sono comprato una macchina per vedere come mi trovavo. Poi invece un amico mi ha regalato un organo farfisa dovendo liberare l’appartamento della nonna della moglie, farfisa che magicamente è riuscito ad entrare nella mia macchina. Dopo un po’ si è creato questo match fra i due strumenti e un po’ alla volta ho iniziato a lavorare al disco.
Quindi si è trattato di un nuovo inizio, la strumentazione per te era piuttosto fresca… L’idea del disco, invece? Dopo anni di progetti di gruppo il mettersi al lavoro su qualcosa di unicamente personale come avviene?
Per quanto riguarda il disco è stato abbastanza naturale, l’idea del solo l’ho sempre avuta anche negli anni del mio essere jazzista più sfrenato. Mi è capitato di fare dei concerti di piano solo dove mi sono divertito molto ma questo non mi aveva mai portato a pensare di avere materiale per un disco. Ma ero convinto chem se avessi avuto il materiale adatto, avrei saputo accorgermene. Quindi niente, il campionatore ho iniziato ad usarlo con il mio trio, che è quello col quale sto portando in giro Fort Da quando la situazione lo permette (insieme a Luca Dalpozzo al contrabbasso e Federico Negri alla batteria), una sorta di piano trio classico ma aumentato dal campionatore. Avevo fatto degli esperimenti, in particolare una piccola suite che inserivo all’interno dei concerti e tutta la scrittura era incentrata sul processo del suono che si poteva fare tramite il campionatore. Questi primi esperimenti mi hanno suggerito una traiettoria che ho trovato più semplice seguire in primo luogo da solo. Ho iniziato con questa suite e del materiale composto appositamente per lavorare in studio, e man mano che procedevo mi sono reso conto che per me aveva un senso, funzionava. L’estate scorsa poi ho avuto la possibilità, mentre metà del materiale era pronta e stavo componendo la seconda parte, di suonare in un paio di festival (Holydays a Foligno e poi a Foresty, un festival più legato alla musica contemporanea nel quale lavora una ragazza che fa parte di Effetto Brama) e durante queste date ravvicinate ho capito che quello che stavo facendo mi piaceva e quindi, invece di renderlo più composito con brani in duo o in trio, mi sono buttato su tracce in singolo. Tre nascono come esperimenti in studio, tre sono state ultimate sapendo come sarebbero potute suonare dal vivo e dunque chiudendo l’album in quella direzione.
Com’è nato invece il contatto con Jonathan Clancy e con Maple Death per la pubblicazione?
Beh, inizialmente da un paio d’anni, stando con Laura ci dividiamo un po’ tra la casa di campagna mia dove ho anche lo studio e la sua casa di Bologna, dove ho iniziato a frequentare di più Stefano Pilia, con cui avevamo fatto una delle produzioni del primo workshop “Soundtracks” sulla sonorizzazione dal vivo. Insomma, sono entrato in contatto con un ambiente che già conoscevo da ascoltatore e quindi conoscendo le cose che faceva mi è venuto abbastanza naturale sottoporla a Jonathan. A Bologna, tramite “Frida Nel Parco”, il festival dell’etichetta, mi ero ascoltato praticamente tutti i progetti Maple Death, che è stata la mia prima scelta perché pensavo che lì il mio lavoro poteva essere veramente valorizzato. Con mia grande sorpresa anche Jonathan era dello stesso avviso e quando mi ha detto di aver ascoltato il disco molte volte e che gli era piaciuto ho capito che le cose si stavano allineando.
È vero che, seguendo e ascoltando le produzioni Maple Death, l’etichetta in questi anni è riuscita ad aprirsi parecchio a sonorità anche molto distanti tra loro, garantendo comunque un’ottima qualità, diventando così garanzia di buoni dischi al di là del loro genere, creando un rapporto di fiducia tra ascoltatore-acquirente e produttore. Ho trovato, nel tuo lavoro come in diversi altri lavori di musicisti italiani contemporanei, questa certa fascinazione per il dub, per una sorta di suono esotico marcio, un suono tropicale che va in macerazione. C’è qualcosa che unisce musicisti di diversa estrazione e che non mi capacito come possa succedere!
Ha ha! Per me non è stata una scelta a priori. Sono arrivato al suono di Fort Da cercando di capire cosa potesse offrire l’organo farfisa, sia suonato tradizionalmente come tastiera sia guardando alla natura dello strumento e di quel modello che, avendo una pedaliera può essere utilizzato come linea di basso. Ha anche quel moduletto che fa tutti i ritmi ballabili però mantiene questo suono da drum machine molto sporca. Ha un registratore a cassette integrato col quale si può registrare quanto fatto o anche suonare su qualcosa di precedentemente prodotto, quindi ho indagato questi aspetti, producendo i beat campionando i suoni (hi hat, snare, cassa) di ogni ritmino creando poi i miei pattern che finivano per avere quell’aria proto-techno. Ho guadagnato quindi quella sporcizia che io amo e che si ottiene lavorando su strumentazioni vintage (che io amo altrettanto avendo avuto diversi sintetizzatori, diverse tastiere, il mio Rhodes, l’Echo Tiger) e quella vitalità imprecisa degli strumenti. Andando poi a lavorare con uno strumento geometrico come il campionatore si crea un equilibrio che non è così esatto dal punto di vista ritmico. Facendo quindi fermentare il tutto si restituisce una dimensione organica che mi rende più semplice improvvisarci come strumentista.
Conoscendo l’esatto output non sono stimolato come invece in queste situazioni, maggiormente degradate o casuali; venendo dalla musica improvvisata è per me molto importante che ci sia spazio per l’imprevedibilità. Da ciò che mi suggeriva lo strumento sono andato anche a cercare un modo di processare i suoni andando su quella linea, mantenendo i margini sfumati perché sentivo di potermi muovere in maniera più organica.
Quel che risalta all’ascolto è proprio quello, una mancanza di pulizia e di precisione ma un dialogo fra te e l’elettronica che, non essendo perfettamente centrato, garantisce corpo al disco. Riflettevo adesso ascoltandoti mentre parlavi che a questo disco hai lavorato da solo, è corretto?
Sì, non ci sono collaborazioni esterne, soltanto un campionamento nell’ultima traccia, “New Holy”, che è preso da un disco che amo molto che è Sextant di Herbie Hancock e, diciamo, nel periodo in cui stavo lavorando su queste cose leggevo uno dei rari libri che si trovano su quel periodo e sulla Mwandishi Band, che parla del rapporto fra un certo tipo di jazz che risente del free e della new thing e l’utilizzo dell’elettronica, dato che questa era una band dove Billy Bonner (aka Fundy, road manager e fonico) faceva live dubbing prima che Hancock iniziasse ad usare i sintetizzatori. Questo disco è rimasto molto nell’aria da me mentre pensavo a questa cosa del solo. Una volta l’ho suonato quand’era più impolverato del solito, nonostante fosse una copia nuova, e si è creato questo classico closed loop su questa frase di Buster Williams e la tentazione di registrarla e di farci qualcosa è stata troppo forte. Quindi poi l’ho passata al campionatore costruendoci un beat sopra. L’ho tenuta alla fine perché come atmosfera si stacca un pochino dal resto del disco e diciamo che quello è l’unico elemento estraneo. Anche in altri brani ci sono parti di piano preparate che però ho fatto sempre io ed anche dal vivo suono anche cassette registrate (tramite il registratore del farfisa).
Suonando ed incidendo da solo che tipo di musicista sei? Capisci quando un brano è finito oppure hai bisogno di pareri esterni? Lavori per dei mesi su una roba o passi velocemente da una cosa all’altra? Che differenza c’è rispetto al suonare con altri?
Diciamo che c’è una differenza alla base: in tutta la mia esperienza con i gruppi di jazz, la prassi solitamente è che uno o più membri scrivano (io scrivo molto), portando le partiture in saletta e cercando di far contribuire gli altri musicisti coinvolti. Questo, nel mio caso, dando anche possibilità di riscrittura se la mia proposta non risuona particolarmente: è una cosa di prassi che a me piace molto perché poi, anche se non è una creazione unitaria e collettiva, risulta un lavoro dove alla fine, quando il pezzo è finito, c’è un risultato condiviso. Ho cercato di fare un po’ la stessa cosa da solo, quindi proponendomi delle idee, scrivendo alcune cose, suonandole e vedendo se quella forma di limitazione e di spunto che può uscire dal confronto con un musicista potesse uscire invece dai diversi strumenti, tentando ed aggiustando nelle diverse postazioni tra farfisa e campionatore. Poi la parte di produzione è stata un’idea più pittorica: ho lavorato in parallelo tre tracce e tre tracce, quindi avevo questi “dipinti” abbozzati in studio in fase via via più definita. Tornandoci decidevo di lavorare su uno di essi e molto serenamente davo il numero di pennellate che ritenevo necessarie quel giorno per poi fermarmi. Un processo abbastanza veloce, chiudendo le tracce in maniera rapida cercando di essere il più efficace possibile riattaccando sulla materia in maniera discontinua. Questo, rispetto al fatto di scrivere le partiture e poterle sentire unicamente nel momento dell’esecuzione, dà un risultato molto diverso e mi ha permesso di ragionare su un lavoro diretto al disco e sull’ idea dell’ascolto di terzi. Ho già anche qualche traccia nuova che dal vivo dà massa al live. Adesso mi piacerebbe iniziare nuovamente questo processo, registrando le parti che ritengo importanti per capire come si configura il paesaggio sonoro un passo alla volta su supporto, rispettando la differenza della fruizione, in primis di come vivo io diversamente l’ascolto dal palco allo studio.
Quanto tempo ti hanno preso composizione e registrazione?
Potrebbero essere durate le prime tre tracce un mesetto e mezzo. Poco meno le seconde tre, che già stavo suonando dal vivo ed erano già ripulite: due tranche relativamente brevi, lavorando nel contempo anche ad altre cose e quindi senza dedicarmici full time.
Come funzionava? Eri in studio? A casa? Come ti eri organizzato?
Per me casa e studio sono la stessa cosa. Ho la fortuna di avere una casa molto grande in campagna dove ho gli strumenti, il pianoforte, la batteria e il resto, e quindi per me significava semplicemente alzarmi la mattina, fare colazione, andare in studio, accendere il computer e riascoltarmi oppure sedermi al farfisa e far partire un’idea.
Domanda indiscreta: tu suoni con questi progetti da più di una decina d’anni, giusto? All’incirca dal 2010… ci si campa?
Sì, diciamo che insegno anche pianoforte, cosa che mi ha aiutato molto, essenzialmente durante tutto il periodo del Covid-19, perché senza sarebbe stato un vero problema. Però negli ultimi anni ho dovuto diminuire anche le ore di insegnamento potendolo fare e il mio desiderio è di dedicarmi alla musica dal vivo, in studio, come produzione, in maniera completa.
Bello anche capire che questa cosa possa funzionare anche nella realtà! Cambio di discorso ora… a livello di Giulio Stermieri come ascoltatore che tipo di personaggio sei? Vorace oppure contenuto?
Sono sempre stato abituato, ereditando la cosa per linea paterna, ad avere musica in casa: lui entrando accendeva la radio e la musica c’era sempre. Per me è sempre naturale avere sempre nuovi dischi: nella chiavetta in auto, in casa vinili, cd e cassette, proprio una cosa della quale ho bisogno a prescindere dal fatto che nutra la mia attività. Trovo sia utilissimo essere informato su quel che succede intorno e mi piace snerdare quanto più possibile su dischi e sulle uscite. Adesso è passato da Bologna Kid Congo Powers che per me è legato ai Bad Seeds e che colpevolmente avevo trascurato rispetto ai Cramps e quindi negli ultimi giorni mi sono andato a ripescare quella roba. Mi piace fare dei refresh o di entrare nelle piccole nicchie da scoprire, oltre alle novità che escono, sia nel jazz che in altri ambiti. Nelle ultime uscite in ambito jazz mi è piaciuto molto il disco di Alexander Hawkins Carnival Celestial, il disco di Rob Mazurek con Damon Locks e un disco di un amico, che mi è piaciuto tantissimo e che continuo ad ascoltare è quello di Andrea Cauduro. Delle ultime uscite queste sono le più pregne che mi vengono in mente… come ti dicevo c’è sempre questo recupero, Jonathan nella press ha citato Egisto Macchi che era quello che avevo ascoltato meno del Gruppo di Nuova Consonanza e quindi ho fatto un’immersione nel suo mondo, comprando Sud E Magia e altro.
Andrea Cauduro tra l’altro uscirà insieme a Paul Beauchamp con un progetto, Chaos Shrine, che probabilmente sarà un’altra bomba. È vero che comunque trovo ci sia mediamente un’ottima qualità nelle pubblicazioni, forse troppe numericamente, il che rende difficile seguire tutto.
Ovviamente, siccome esce così tanta roba, non tutta ha il risalto dovuto e questo ha un peso sul mestiere dell’artista ed è il mantra che mi sono ripetuto iniziando a produrre. C’era già tantissimo digitale, è arrivato anche Spotify ed il rischio che un disco possa perdersi anche se meritevole c’è ed è un peccato, ma vedere tanti amici che fanno uscire cose molto belle è estremamente stimolante e bello come ascoltatore.
Volevo chiederti qualche informazione anche su Impulse Response, che sembra essere un’etichetta digitale e un’organizzazione di concerti, è corretto?
Anche un programma su Fango Radio! Noi abbiamo iniziato perché vivendo in questa casa piuttosto grande, riflettendo sui privilegi che si hanno e sulla condivisione di questi l’idea con Laura è stata quella di iniziare con degli House concerta nel novembre del 2021 con tutte le cose che ci piacevano, coinvolgendo spontaneamente gli amici per cose sperimentali, jazz ed altro, di norma al chiuso e uscendo per l’estate. Uno dei live più belli che abbia mai sentito è stato quello dei So Beast, non so se tu li conosca…
Ah… sì! Li ho appena ascoltati in un brano dei Lampredonto bellissimo! Non conosco i dischi, devo approfondirli assolutamente…
Il disco può trarre in inganno, essendo molto rifiniti, ma dal vivo sono veramente potenti e dionisiaci… quello è un live che consiglio assolutamente a tutti, per noi è stata una magia ospitarli in una bella serata estiva! Poi al momento ci siamo fermati perché stiamo dando una mano a Stefano Pilia che sta facendo programmazione a Grabinski Point in centro a Bologna, quindi abbiamo sospeso le cose al chiuso alternando gli appuntamenti al chiuso in città e all’aperto d’estate. Quando l’artista poi si dichiarava disponibile registravamo e mixavamo i concerti grazie a Michele Bonifati, mio socio negli Aparticle, mentre le grafiche le fa(ceva) Dario dei Tristitropici. Altre registrazioni poi le abbiamo fatte a Grabinski (ad essere uscita per ora è solo Teresa Wong) e abbiamo altre cose che vorremmo pubblicare. La cosa era nata visto che la soluzione Secret Concert non è mai la meglio retribuita per l’artista, quindi una registrazione può comunque dar peso ad un’occasione del genere, poi anche per il nostro piacere di documentare questa cosa, creandosi un’atmosfera speciale fra il pubblico e nell’ascolto. Ci sono sempre fra le trenta e le quaranta persone ed è una situazione irreale e bellissima, irripetibile. L’idea è stata quella sin da subito di non fare i classici video con la falsa convinzione che guardarne uno fosse come quello di essere lì presenti, rimarcando invece la differenza fra l’ascolto dal vivo e quello a casa anche per continuare a frequentare i luoghi dove fanno concerti. Il programma su Fango Radio nasce invece per raccontare quello che succede nelle programmazioni e a volte chiedendo agli artisti stessi di farci delle mixtape, facendo passare per radio quello che i musicisti vogliono trasmettere.
Grazie mille Giulio! C’è altro che vuoi aggiungere?
Nulla, se non che è appena uscito il nuovo ep dei Tristitropici… credo che abbiamo veramente parlato di tutto, grazie mille The New Noise!