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GIULIO ALDINUCCI, Borders And Ruins

Su Giulio Aldinucci abbiamo scritto molto, includendolo anche nella compilation “Dronegazers?”. Borders And Ruins, uscito da poco per l’ottima Karlrecords, è forse uno dei suoi dischi o il suo disco più indovinato.

Bisogna immaginare la potenza dell’ultimo Lawrence English e l’emotività di Rafael Anton Irisarri, unite alla reinvenzione del sacro di Tim Hecker e Kara-Lis Coverdale. Intendiamoci, se esistesse davvero qualcuno in grado di trovare la sintesi tra tutti questi artisti, molto probabilmente gli avrebbero già fatto un monumento equestre, quindi le cose non stanno esattamente così, ma resta il fatto che Aldinucci va messo in relazione con loro. La presenza di field recordings raccolti in chiesa, magari durante le funzioni, e poi trasfigurati secondo la sua sensibilità, non sorprende se si conosce il suo percorso (Spazio Sacro, il progetto Cathedrals di Pietro Riparbelli…). Non spiazza nemmeno la sua vicinanza a quel suono sgranato che sta facendo la fortuna di Room40 e giri simili, del quale sembra aver interiorizzato l’intensità e la capacità di mirare al cuore e non solo al cervello (sentire “Exodus Mandala”): la presenza di uno come Alexandr Vatagin (Valeot Records) al mastering, col quale ha già collaborato, fa infatti ricordare che Giulio si muove da anni su questi territori o al confine con essi.

Borders And Ruins, come titolo, potrebbe essere un riferimento a questo periodo in cui intere città spariscono (e con esse una storia millenaria) e quantitativi enormi di persone finiscono lunghe marce disperate di fronte a un muro o a un filo spinato. Di sicuro la musica che contiene riflette la sofferenza e la pietà che simili tragedie possono suscitare.

L’edizione fisica di questo album (vinile, tiratura 200 copie) è già sold out. Mi sa che c’ho visto giusto stavolta.