GIOVANNI LAMI + P-BRANE, 12/11/2014
Roma, DalVerme. Il report è corredato dai visuals di Natalia Trejbalova per Giovanni Lami. La ringraziamo.
Le serate al DalVerme dove c’è di mezzo la Nephogram sono sempre auspicio di sonorità coscienti, che quindi non hanno bisogno di soffermarsi troppo sulla suddivisione in generi, senza che – per sopperire a deficit di intelligibilità – si finisca per rilegare il tutto con un fiocchetto con su scritta quella parola scomodissima: “sperimentale”. Sperimentare semmai, quello sì, ma quanti possono dire di farlo senza inciampare nell’illecito di didascalismi scevri da qualsiasi ricerca? Il tutto nel mentre a Roma si consuma il fuoriporta del Von Codalunga in combutta con Skyarte, ma forse è un caso, anche perché Basisnki è sempre Basinski.
Qua mesi addietro gustai un live di Andrea Valle e Simone Pappalardo, quest’ultimo uno tra i più attenti compositori elettroacustici che abbia mai visto all’opera, mentre il primo è senz’altro uno degli esempi più ragguardevoli di come si possa ri-pensare la computer music. Detta così, sembra che uno sia andato all’Opera di Santa Cecilia, ma in realtà tutto, anche e soprattutto grazie all’ambito ben più frugale e appartato del Verme, si muove secondo l’idea “per molti ma non per tutti” (nonostante la cifra del molti ci restituisca sempre una quantità piuttosto esigua, stavolta complice pure la pioggia). Sta di fatto che se leggo che – nel suo viaggio di avvicinamento ad Auna – Giovanni Lami fa tappa a Roma accanto a Federico Placidi e Giacomo Tropea (estemporaneizzati per l’occasione nel duo P-Brane), io vado, anche a costo di aprire un ombrello (una delle mie tante idiosincrasie).
Lami lo conosciamo. Meno, almeno io, gli altri due. Giacomo è un giovane armato di valigetta rack, una sorella minore del VCS3 mk1 di Federico, prima volta che ne vedo uno dal vivo. Se comunque facciamo un veloce resoconto sugli studi di Placidi, polistrumentista formato tra Vienna e la Francia del CCMIX con diverse esperienze nazionali e internazionali, capiamo che non è ne uno sbadato con tanti soldi da buttare, né uno che è andato a rapinare la casa di Battiato o di Utley. La piega della performance “cotta e mangiata” mostra un modo vitale di approcciarsi allo strumento, le sinusoidi gorgogliano e transumano brade tra onde interpolate. Gli oscillatori non stanno mai fermi, le valvole ringraziano. A voler fare i reazionari: pura retroguardia elettronica per diodi da laboratorio. A quando uno Synket?
Giovanni e Natalia Trejbalova sono una coppia rodata. Il video della Trejbalova diretta conseguenza di suggestioni ricavate dall’ascolto, un’empatia che risuona nei colori astratti di uno spazio interiore? È anche questo il paesaggio sonoro secondo Lami in मेम वेर्म [mema verma] (qui la nostra recensione). Anche l’interiore di uno strumento “acefalo” (uno shruti box preparato per non-suonare) è capace di dar vita a un mondo. Il suono, come da scuola faravellica, è di quelli che impegna. La sorgente è sulla soglia d’ascolto, ma appunto per questo non si impone nell’area circostante, ma anzi cerca in essa una sua collocazione naturale. Una Oliveros con laptop per drone “eterni”. Un suono protratto all’infinito e quindi un gioco di proporzioni. L’infinitamente grande è allo stesso tempo infinitamente piccolo.
C’è però chi è meno fortunato dei sottoscritti. Il barman del Verme, così prodigo a soddisfare le deambulazioni alcoliche dei clienti, ha un incidente alle porte dell’evento, quindi da buono statuto di borgata è necessario un accertamento sulle sue condizioni. L’after, invece, è di quelli invidiabili, si comincia un po’ Vitelloni un po’ “imperatori” di Roma per finire inesorabilmente come ne “La Notte Dei Morti Viventi”. In effetti alle soglie del Pertini c’era pure una tenda per i malati di ebola… niente da fare. Ho sempre un debito di sangue con questa “stupenda e misera”, città che, anche stasera, ha dovuto fare la stupida.