GIOVANNI LAMI

Giovanni Lami (Ravenna, 1978) è apparso su queste pagine come Lemures (insieme a Enrico Coniglio), Terrapin (con Shaun McAlpine) e col suo nome. L’intervista prende le mosse dalla sua ultima pubblicazione per Kohlhaas.

Quali sono le origini di मेम वेर्म [mema verma]? Com’è nato e quali sono state le ispirazioni che ti hanno portato alla composizione di un disco così diverso rispetto agli altri?

Giovanni Lami: Ha avuto una strana evoluzione, diversa da tutti i lavori pubblicati o semplicemente chiusi fino ad oggi. Il disco è composto da registrazioni grezze fatte più o meno due anni fa e successivamente editate. Si concentra esclusivamente sullo studio di uno strumento indiano, lo shruti box, che avevo acquistato pensando di lavorare sostanzialmente su droni da campionare e inserire in qualche pezzo. In realtà però, lavorando in modo più mirato, mi sono accorto delle sue grandi potenzialità in campi totalmente diversi da quelli tradizionali (cioè d’accompagnamento, a differenza del sitar o di altri strumenti solisti dell’ensemble). Sinceramente non ero (e non sono) fissato con la musica indiana e devo ammettere di non esserne un esperto, nonostante esista in me un’inevitabile attrazione a livello culturale. Ho suonato la batteria per anni da adolescente (oggi completamente abbandonata) e poter avere di nuovo qualcosa di legno tra le mani è stato un po’ riscoprire dinamiche “acustiche” perse da tempo.
Tutti gli elementi strutturali che lo compongono si prestano e concorrono a un possibile studio non convenzionale delle sue potenzialità: ha il mantice che fa questo soffio e genera dei battiti stupendi, mentre alcune ance, sforzandole molto, iniziano ad emettere dei soffi senza produrre gli armonici propri dello strumento; i soffi poi, sforzandoli ancora di più, possono trasformarsi in acufeni. Nel tempo, ho iniziato anche a intervenire sulle ance con piccole lamelle d’ottone, per spezzare questo soffio e dare un altro colore al risultato.
Erano proprietà dello strumento per me inesplorate, che mi hanno costretto a un’amplificazione/registrazione molto ravvicinata dal momento che i soffi stessi, a livello acustico, si perdono a breve distanza; microfonare un dettaglio di questo tipo e riproporlo attraverso un’amplificazione crea uno spaesamento acustico, territorio sul quale mi interessa tantissimo lavorare.
Il disco è nato attorno a questa scoperta, attorno al campionamento di queste proprietà. Anche il live è di conseguenza un set molto ridotto, dove sostanzialmente sono presenti solo lo shruti ed un laptop.

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foto di Francesco Pernigo

Parlami un po’ dell’uscita dell’lp su Kohlhaas: com’è avvenuto l’incontro tra te e Marco?

Sedimentando in un cassetto per quasi due anni, in attesa di poter vedere la luce in una forma chiara e ben strutturata, l’avevo quasi dimenticato. Finché un giorno Marco (che già conoscevo perché attivissimo nell’organizzare concerti in Trentino) mi chiede di sentire un po’ di materiale per un’eventuale uscita sulla sua nuova etichetta. Gli giro cose nuove, progetti appena abbozzati sui quali poter metter mano, cose sulle quali stavo lavorando al momento; poi mi viene in mente mema verma e gli dico: “ascolta questo”. È stata un’illuminazione – per lui ma anche per me – perché, riascoltandolo dopo così tanto tempo, l’ho ritrovato freschissimo e allineato perfettamente alla ricerca che stavo portando avanti con il field recording.
La masterizzazione di Giuseppe Ielasi e la stampa a Berlino da Handle With Care sono stati a livello sonoro il tocco finale. L’artwork invece, è stato stampato in serigrafia da CORPOC.
A prescindere dall’amicizia che ci lega, per me è fondamentale supportare una persona che sta investendo molto (a livello economico, di tempo, di energie) per creare una realtà come questa.
Se nascessero altre etichette come Boring Machines o Holidays, con quel tipo di dedizione, consapevolezza e cura nelle produzioni, credo sarebbe solo un bene per il panorama italiano.

Pensi che lasciarlo in un cassetto per due anni sia servito? Ma, soprattutto, ritrovarlo può essere stata per te una riscoperta, cioè la scoperta a posteriori di un qualcosa che aveva già superato le tue aspettative e i tuoi lavori successivi?

Sì, assolutamente sì, anche se me ne sono reso conto solo successivamente. Che fosse una cosa valida, l’avevo già capito dei feedback positivi arrivati da chi l’aveva ascoltato allora, così la scelta di dire “ok, lo tengo lì e se ci sarà occasione si farà qualcosa, però qualcosa di ben fatto” era stata inevitabile. Qualche mese fa l’occasione è arrivata.
Oggi credo che mema verma sia diverso rispetto ai lavori precedenti, un po’ per questo suo strano e lungo percorso, un po’ per il materiale utilizzato, ma allo stesso tempo sia totalmente integrato a quel tipo di progettualità.

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Il package del disco com’è stato realizzato? Spiegami meglio la questione della scritta sulla copertina e quella dei due disegni contenuti all’interno. Ti dico la verità, quando li ho visti mi sono sembrati subito due animali preistorici, tipo un insetto/verme e un pesce. Ho forse viaggiato troppo con l’immaginazione?

Tutta la parte grafica è stata curata da Giovanni Battista De Pol/DeadMeat, amico da anni, in parte attraverso l’uso dell’alfabeto sanscrito. La scritta in copertina è appunto la traslitterazione in sanscrito del nome dell’album, composto da due parole, nell’artwork sono capovolte per una questione puramente estetica. Sono dell’idea che non si debbano cercare per forza significati/concetti dentro ciò che si fa: se qualcosa funziona perfettamente anche solo a livello estetico, per me funziona al cento per cento.
I disegni interni, invece, sono entrambi due schede scientifiche: una sezione dell’occhio e uno spermatozoo. Con Giovanni abbiamo collaborato sulla parte esterna, a me piaceva che ci fosse questo rimando al sanscrito scritto, per il resto ha avuto totalmente carta bianca. Lasciare la persona al tuo fianco completamente libera a livello creativo è l’approccio che tendo sempre ad avere, lo ritengo molto più stimolante.

Giovanni Lami

I titoli alle tracce li avevi già dati due anni fa?

Sì, era un qualcosa che avevo in testa fin dall’inizio. Ripensandoci, a distanza di tempo mantenevano comunque una loro intensità, così ho deciso di non modificarli. Sono semplicemente quasi tutte parole senza significato (una specie di grammelot), così come il mio modus operandi sullo strumento a livello tradizionale è completamente errato, anzi, ad un purista potrebbe sembrare un’operazione per snaturarlo. Mi piaceva l’idea che a livello testuale non ci fossero rimandi, tranne un legame puramente visivo di appartenenza a quella cultura. Non c’è alcun significato nascosto dietro ai titoli.

Com’è avvenuta la trasformazione dal disco al live?

Il live è stato pensato nel momento in cui ho deciso di concretizzare questo lavoro. Personalmente, quando si finalizza un disco, non credo si possa prescindere da una sua proposta dal vivo, che spesso finisce per esserne l’aspetto più interessante e seducente vista l’imprevedibilità intrinseca. È sempre uguale ma sempre diverso, perché anche se sono presenti una struttura, delle variazioni e delle sezioni abbastanza definite, mantiene uno stupendo margine d’incertezza. Per preparare il live sono semplicemente partito dal disco, orientandomi però quasi immediatamente su una forma molto più cruda e scarna, con meno elementi e strati sonori co-presenti nei vari passaggi.

Giovanni Lami

Parlami dell’altra collaborazione importante, quella con Natália Trejbalová, per i visual durante i concerti. Che importanza hanno i visual in un live di musica elettroacustica come il tuo?

Le collaborazioni penso abbiano rafforzato le idee alla base del lavoro, aprendo percorsi davvero stimolanti. Natália, come Giovanni, ha avuto carta bianca per ciò che riguarda le sue competenze.
Premessa: credo che Ryan Trecartin sia, all’interno della video arte, ciò che di più interessante si può vedere in giro oggi. Sono innamorato dei suoi lavori, in modo anche malato a volte, nel senso che capita li metta in casa come sottofondo mentre sto facendo altro. Non dico che il lavoro fatto da Natália per questo progetto sia uguale ai video di Trecartin – ci mancherebbe – però ci trovo molti punti in comune, soprattutto a livello stilistico: la bassa risoluzione, la sovrapposizione dei piani (qualsiasi tipo di piano, non solo visivo, ma anche nella forma), il rumore a livello di immagine che permane sempre.

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Il lavoro realizzato da lei per mema verma è leggermente diverso dalle sue produzioni precedenti, questo per ottenere una forte coesione con la parte sonora. In molte parti sono presenti degli “ornamenti” colorati e luminosi che si ispirano al sanscrito scritto, derivati da frammenti di foto a bassa risoluzione o screenshot di film di Bollywood completamente deformati e ridotti a puro segno grafico. Ha fatto sua, nella parte visiva, l’idea del grammelot, per me uno dei punti cardine a livello acustico.
In generale, la poetica del lo-fi e della corruzione dei dati (immagini, suoni o altro, non importa) trovo sia oggi qualcosa che sento davvero parte del mio modus-operandi ed i visual creati si intersecano alla perfezione con tutto questo.
Uno degli aspetti più affascinanti delle collaborazioni è la parte (co)partecipativa dell’intero processo, dove in un continuo rimbalzo entrambi i lavori si modellano l’uno sull’altro fino a creare, in questo caso, una totale amalgama audio video. Proprio per questo, cerco sempre di fare in modo che lei possa essere presente durante i live, non nascosta in regia, ma ad un metro da me sul palco. Questo perché, nel momento in cui si decide di portare all’interno dell’atto pubblico (presentazione, concerto, performance, decidete voi come chiamarlo) un altro elemento, che magari va pure ad occupare un’altra area sensoriale, penso quest’ultimo debba essere presente come tutti gli altri.

In verità, alla base c’era anche la voglia di provare a scardinare – nel mio piccolo – l’immaginario legato all’elettroacustica in generale, a questo tipo di ricerca sonora considerata dalle masse spesso difficile, incomprensibile, oscura, elitaria, per la quale serva innegabilmente un background culturale e cognitivo indispensabile alla comprensione. Niente di più sbagliato. Esistono tantissimi preconcetti, spesso creati anche da noi musicisti involontariamente, ma è tutto molto più “di pancia” e viscerale di quello che si pensa e, nonostante io per primo legassi questo tipo di ricerca ad un certo tipo di immaginario stereotipato, mi sono ritrovato a scoprire quanto fosse in fondo un qualcosa di indotto e irreale.
L’input e lo stimolo a voler inserire una parte visiva è stato questo. Non intendo ciò che faccio come cerebrale, non serve chissà quale background per capirlo: può arrivare comunque.
In quest’ottica, il fatto di inserire dei visual (come se non bastasse, colorati e folli) penso possa aiutare ad avvicinare le persone a questo tipo di musica, fermo restando un interesse di base da parte mia, a prescindere dal fatto che qualcuno in più si avvicini. Insomma, non è una mission sociale.
Per avvicinare la gente a cosa poi? Sostanzialmente ad un ascolto. Credo sia tutta una questione di educazione sonora, ci si impegna solo per far sì che possa esserci più apertura e sensibilità all’ascolto, sensibilità percettiva in generale.

Un altro escamotage per avvicinare la gente a questo genere musicale potrebbe essere l’organizzazione di un festival elettroacustico aperto al pubblico, come il Thalassa per la psychedelia occulta italiana, o no?

In realtà, l’abbiamo già fatto. Il festival si chiama AUNA ed è organizzato direttamente dai musicisti, circa 12-13 persone italiane e Adam Asnan. In verità non è nato come un festival, ma come un incontro laboratoriale-informale: si tenevano delle prove chiuse nelle quali ci facevamo sostanzialmente i cazzi nostri per due o tre giorni. E inizialmente ce li siamo fatti all’Area Sismica e al Raum, entrambe le volte senza pubblico: si parlava e si suonava assieme sorteggiando dei duo e dei trio che provavano durante alcuni orari e successivamente proponevano agli altri il risultato. Questa dimensione laboratoriale è di fondamentale importanza, perché è quasi sempre intrinseca a questo tipo di ricerca sonora in divenire, che va a specchiarsi nell’altro quando si interagisce.
In un secondo momento, poi, abbiamo deciso di aprire gli “esiti” improvvisativi ad un pubblico, prima al Teatro Moderno di Agliana grazie ai ragazzi di NUB, poi all’Area Sismica lo scorso aprile. In generale, la scarsa affluenza ci ha portati a riflettere sul metodo, sul possibile interesse a una proposizione pubblica e su altri aspetti; in più, la seconda volta, si è persa la fase “chiusa” per motivi logistici, interagendo tra noi molto poco prima dell’apertura. Sicuramente averci sbattuto contro ha riconfermato quanto quest’aspetto ci interessi e sia fondamentale, dal momento che è stato il germe iniziale dal quale sono nati questi incontri.
A metà novembre apriremo al pubblico per la terza volta, sarà Milano, un festival di due giorni a Zona K. Milano è una piazza completamente diversa dalle precedenti: volutamente non si farà in uno spazio espressamente deputato alla proposta di concerti o performance in qualche modo “radicali”, ma allo stesso tempo sarà un luogo molto indicato perché tutelato a livello acustico e non ci sarà amplificazione se non gestita autonomamente da ogni musicista. Nessuno proporrà i propri lavori, non ci saranno “solo”, ma improvvisazioni su uno schema come quello accennato, dove il suono e i musicisti stessi saranno dispersi e diffusi nell’ambiente.

AUNA

Quali pensi siano le zone e gli spazi italiani che più si prestano a questo tipo di musica?

Ci sono delle “isole”, fortunatamente: una di queste è la Romagna, fino a Bologna, intesa come area che presenta sia spazi interessanti sia musicisti, e Milano. Il resto sono realtà isolate all’interno di un panorama di locali/location per la maggior parte inadeguate (per mille motivi diversi) a questo tipo di proposta.
In fondo non credo sia una coincidenza vedere quanto stiano aumentando gli house-concerts, cioè i concerti realizzati nelle case messe a disposizione dai privati appositamente per queste occasioni. Se da una parte credo sia una realtà davvero stimolante (per il tipo d’ascolto che si crea, per l’informalità, per la possibilità d’incontrare persone…), diversamente è solo una riconferma alla mancanza di spazi più istituzionali – come fossero inghiottiti da un buco nero – che potrebbero supportare un artista o un festival con più fondi e più visibilità.

Il silenzio è un qualcosa che richiedo sempre, una discriminante essenziale (la discriminante ultima, in effetti), per decidere se suonare oppure no in una determinata location. In generale, è comunque qualcosa di necessario perché spesso ciò che si suona ha dinamiche così basse che solo così si può riuscire a creare una condizione di ascolto profondo.
A volte capita però di giocare con le interferenze, ma solo dove ha senso farlo. Ad esempio, il 21 giugno è stata organizzata una giornata all’interno del parco delle Foreste Casentinesi; per arrivare alla location serviva un’ora e mezza di camminata e chi voleva poteva essere accompagnato da una guida. Lì ha avuto senso giocare con ciò che era già presente, una vera esperienza a trecentosessanta gradi. Insomma, immagina la guida del parco che, dopo una camminata di un’ora e mezza, ti porta in un posto dove c’è un fiume che scorre lentissimo, un prato molto grande ed uno più ridotto, a semicerchio, dove io ho fatto un solo con quattro speaker posizionati sui rami degli alberi e un piccolo synth tutto alimentato a batterie. Poi Tilde (il trio di Nicola Ratti, Enrico Malatesta e Attila Faravelli) si è esibito completamente in acustico sul fiume. Gente che è venuta a farsi la camminata senza neanche sapere cosa veniva ad ascoltare si è trovata davanti il mio set, dove per quasi venti minuti ho mandato acufeni dai rami degli alberi, mentre loro tre invece hanno spazializzato muovendo oggetti e camminando sulla riva del fiume. Sono tutti restati ad ascoltare.
Un’incontro simile è stato organizzato verso metà settembre all’interno di un parco cittadino di Rovereto: anche in quest’occasione la cornice, l’ascolto, l’esperienza in generale sono stati proprio quella che ci si aspettava, dimostrando quanto in fondo spazi e contingenze si possano effettivamente creare da zero.
Non penso sia qualcosa di così incomprensibile se tu ascoltatore, per primo, ti poni nelle condizioni giuste rispetto a ciò che ti viene proposto, senza preconcetti.

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foto di Francesco Pernigo

Ti faccio una domanda un po’ più personale. Con un master in fotografia allo IED di Roma e una carriera decennale sempre nel mondo della fotografia, hai deciso di abbandonare tutto e dedicarti alla musica. Cosa ti ha fatto intraprendere una svolta del genere e com’è avvenuto questo cambiamento? Coi tempi che corrono oggi, difficilmente qualcuno lascerebbe un posto di lavoro sicuro per inseguire i propri sogni. Tanto di cappello, insomma.

Inizio col dire che non era affatto un lavoro sicuro, fare il fotografo. Anche pensare di fare il musicista, vivere di musica, è quasi anacronistico oggi. Sudore ed energie spesso non ripagate, per guadagnare qualcosa preferisco strade parallele che nulla c’entrano con questo mondo. Nel mio caso, sono semplicemente cambiati gli interessi, la voglia di sviluppare progetti per immagini (non considero ora la parte più commerciale, che può avere un suo peso, ma non può a mio avviso influenzare una scelta di questo tipo, che deve invece rimanere fedele alle proprie attitudini) è sfumata, mentre ha preso sempre più forza l’interesse e la voglia di investire quelle energie all’interno della ricerca sonora in prima persona, non solo da ascoltatore. Molto semplice quindi, in modo molto fluido, la stessa attitudine si è riversata all’interno di un altro media, utilizzando altri mezzi, camere di grande formato si sono trasformate in microfoni. In questo senso, credo sia stata naturale inizialmente la migrazione all’interno del field recording, continuando ad indagare lo spazio circostante, siano dettagli, campi aperti o quasi “ritratti sonori”.

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Ora una domanda da parte di tutti noi di New Noise: come ben saprai, è uscita la seconda compilation della nostra webzine che si intitola “Italian Resonances | Dronegazers?” e molti degli artisti coinvolti come protagonisti (Giannico, Coniglio, Boccardi, Novellino, Aldinucci) fanno parte dell’associazione nazionale A.I.P.S. (Archivio Italiano dei Paesaggi Sonori). Siccome anche tu fai parte di questo collettivo di “soundscapers”, potresti descrivermi come funziona dalla A alla Z? Di cosa vi occupate nello specifico e qual è esattamente il tuo ruolo in tutto questo? Vi limitate a raccogliere le principali esperienze di soundscaping e a renderle consultabili gratuitamente da chiunque in un sito online oppure c’è dietro qualcos’altro?

Ok, proverò ad essere esaustivo. Nonostante sia un progetto fondato da Alessio e Francesco, la struttura di AIPS è molto orizzontale. La mission alla base è divulgare la cultura del soundscape attraverso progetti collettivi creati all’interno del network o personali, veicolati anche dal network stesso a livello di visibilità. Lo sviluppo di idee a livello collettivo credo sia uno dei suoi punti di forza, si va dai workshop più tradizionali sul paesaggio sonoro, già realizzati in diverse città italiane, a progetti più musicali come possono essere le releases su Oak (l’etichetta interna) o la bellissima esperienza di Postcards from Italy, realizzata in anteprima al CafeOTO di Londra e successivamente da O’ a Milano. L’orizzontalità del gruppo fa sì che di volta in volta si venga tutti a conoscenza delle possibilità che si presentano e ognuno possa decidere autonomamente se partecipare oppure no. Molto liberamente. Ad esempio per Dronegazers, non avendo molto tempo nel periodo dedicato a questo progetto, ho deciso di passare, mentre ad altri ho partecipato e parteciperò; ed è così per tutti. In fondo, i membri del collettivo crescono in numero ed è molto importante a mio avviso che si possano creare intersezioni complesse, con presenze diverse a proporre di volta in volta diverse sonorità, che se viste nell’insieme mostrano le vere potenzialità del gruppo.
Personalmente riconosco AIPS anche come il “luogo” dove è iniziata la collaborazione con Enrico Coniglio a nome Lemures, ora diventato il duo più stabile ed attivo che ho, con una pubblicazione in LP12 su Crónica nel 2013 e la partecipazione allo Störung di Barcellona in primavera.

Sì, il disco Lemuria è stato recensito anche su The New Noise. Potresti spiegarmi da dove deriva esattamente il nome di questo progetto? È realmente ispirato alle antiche cerimonie romane attraverso le quali si esorcizzavano i morti oppure c’è qualcosa di più profondo? Dal vivo come vi esibite? Ci sono altre uscite in programma?

Lemures è realmente ispirato, come immaginario e come intento percettivo a quell’idea, ma non solo. Anche se legato a un duo di live field recordings dove dal vivo Enrico ed io utilizziamo sostanzialmente i nostri laptop per diffondere e parzialmente processare campioni audio, il legame con il nome del progetto (e della prima uscita su Crónica) diviene chiaro dal momento che la nostra intenzione è sempre stata quella di creare una destabilizzazione dell’ascoltatore, fondendo registrazioni reali in modo da creare un ambiente immaginario che può esistere solo in quel preciso momento, in quel preciso luogo. In questo senso è un po’ come una cerimonia, nel cercare quella sacralità, ma anche quella volatilità.
Per ora non sono previste nuove uscite, nell’ultimo periodo abbiamo seguito strade più individuali o altre collaborazioni, in realtà pensare di poter lavorare su nuovo materiale credo potrebbe essere ora molto interessante…

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Che mi dici, invece, della tua collaborazione con il progetto di Attila Faravelli chiamato “Aural Tools“? Ne abbiamo parlato anche in un articolo su The New Noise, ma vorrei approfondire il discorso, se possibile. So che esistono vari sound-objects, che sembrano delle invenzioni neo futuriste: il primo, quello che hai suonato anche tu, ha la forma di un trifoglio (da cui prende appunto il nome) e sembra una sorta di scultura sonora da tenere in mano come un libro, mentre gli altri due (Freie Aerophone e Bilia) sono oggetti che producono suoni diversi a seconda che li si faccia roteare in aria o rimbalzare sulle superfici. Cos’è che ti ha affascinato di questo progetto e come hai vissuto quest’esperienza? Hai avuto difficoltà nel suonare uno strumento come il Trifoglio? Ma, soprattutto, cosa pensi di questa nuova forma di “musica da toccare”, legata alla sound-art e totalmente fuori dagli schemi?

Penso che il progetto di Attila sia una delle realtà più interessanti e innovative degli ultimi anni, non solo nel panorama italiano. Lo scarto esperienziale che genera in chi utilizza i suoi dispositivi è enorme, perché non si è più soltanto ascoltatori ma creatori, attraverso una presa di coscienza diretta dei meccanismi che generano o diffondono il suono. È un progetto educativo e piacevole, inoltre gli oggetti sono tutti davvero belli, esteticamente parlando. Era impossibile non collaborare con lui quando mi ha chiesto un po’ di suoni per Trifoglio. Quest’oggetto sonoro è sostanzialmente un diffusore m/s (mid/side, una tecnica utilizzata nella ripresa microfonica stereo, ma raramente nella sua diffusione), con “ali” studiate per creare un’apertura stereofonica e dare fisicità al suono (sono cave, quindi si possono sentire le vibrazioni mentre si tiene in mano). Lo strumento in sé non si suona, ma ciò che abbiamo fatto noi collaboratori è stato utilizzare una serie di materiali opportunamente trattati che ben si adattassero a questo particolarissimo modo di fruizione ed avvolgessero l’ascoltatore. Nel mio caso sono principalmente field recordings grezzi (skaters davanti al MACBA, vetri in vibrazione, acufeni di centraline in tilt…) più un paio di registrazioni di sintesi.

Ritornando alla compilation di The New Noise, ritieni di poter essere definito anche tu un “dronegazer” oppure preferisci non avere alcuna “etichetta” di questo tipo? Ormai tutto il mondo funziona per definizioni, a volte belle a volte brutte, ma personalmente parlando credo che una definizione di questo tipo non possa che rendere onorato chi la riceve.

La compilation è davvero ottima, ma penso che all’interno del genere drone, in tutte le sue accezioni e sfumature, sia oggi sempre più difficile tirar fuori cose davvero interessanti anche dalle varie contaminazioni. Ok, bellissime cose sono state fatte in passato, ma in qualche modo è stato come spremuto fino al midollo.
In realtà, continuo a non amare le etichette, però te la passo. Vero è che posso concedertela solo se teniamo i margini della definizione molto frastagliati e incerti, perché ultimamente sono sempre più lontano e a volte quasi allergico al genere, che ritengo possa diventare un “salvagente” (cit.) sul quale appoggiarsi perché in fondo rassicurante (per chi l’ascolta e per chi lo crea). E non amo essere rassicurante.

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Visto che hai sempre collaborato con molti artisti (come nel festival AUNA, ma non solo) e, come abbiamo già detto, hai dato vita a vari progetti collaterali, ci sono molte differenze per te tra suonare con qualcun altro e suonare da solo? Cosa preferisci? Ma, soprattutto, quanto e perché è fondamentale nel tuo lavoro lo scambio di informazioni con le altre persone?

Come già si sarà intuito, considero il confronto un elemento cardine, e non solo in questo campo. Qui però è tanto più importante quanto più si desideri progredire nel proprio studio. Ti dirò, per me è fondamentale anche nei lavori in solo. C’è sempre un momento verso la fine, quando tutto è più o meno definito ma esiste ancora un margine per apportare modifiche, durante il quale faccio ascoltare o vedere il lavoro a un gruppo ristretto di amici, musicisti o non, ma sempre persone che per i motivi più diversi stimo. Per poter avere un feedback, per avere un parere sincero e non mediato dall’evoluzione del progetto, che rischia sempre di essere come un velo a coprire eventuali mancanze o criticità, in modo da avere ancora tempo per intervenire.

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foto di Francesco Pernigo

Quest’anno hai partecipato alla prima edizione dello Human Scapes Festival, di cui noi di The New Noise siamo stati media partner, tenutosi dal 21 al 27 settembre nei Cineporti di Bari e Lecce e curato dall’AIPS e Trans Tv. Un evento più unico che raro, perché ha coniugato musica elettroacustica e sperimentazione visiva in una regione, la Puglia, decisamente abituata ad altri generi musicali. Circa 50 ore di filmati amatoriali e familiari, girati tra gli anni ’40 e ’80 del secolo scorso, sono stati valorizzati attraverso la rivisitazione musicale tua e di altri artisti nostrani. Come pensi abbia reagito il pubblico pugliese di fronte a questo esperimento visivo-sonoro? Potresti spiegare, per chi non c’era come me, che cos’hai realizzato e quale tema hai sviluppato per l’occasione?

Ci sono cose che vanno fatte, strade che vanno percorse per portare all’attenzione di un pubblico sempre più vasto e non dei soliti addetti ai lavori (con i quali ci si deve però giustamente continuare sempre a confrontare) ricerche che altrimenti rischierebbero di essere confinate in territori sempre troppo ristretti, ma che hanno – giustamente – aspirazioni altre, un’apertura maggiore. Ed è questo il caso: una proposta realizzata in questo modo non può che allargare il pubblico, avvicinandolo ad un’area musicale contro la quale magari non avrebbe mai sbattuto, ma che spero possa ritenere interessante. A me è stato assegnato (sorteggiandolo) un filmato dal titolo “militari”, che è stato proiettato all’interno del festival. In realtà, non poteva andarmi meglio. Riprese amatoriali fatte durante svariate parate nelle quali non mancavano regolarità e disciplina, primi piani di persone che assistevano da più vicino o da più lontano e che filmavano alcune scene da una barca della Marina. Lasciandomi guidare da quelle immagini, ho cercato di dare vita inizialmente a un qualcosa di molto insistente, su basse frequenze in pulsazione, per poi sfociare in differenti passaggi, dove erano presenti campionamenti di vecchi vinili russi o squarci molto più armonici.

Prossimi concerti in programma con mema verma? Eventuali lavori futuri correlati e non?

Tra settembre e novembre ci sono già molte date confermate, quasi sempre con Natália all’apparato video. Sono tutte scritte in una pagina (questa) del mio sito, in più per marzo sto iniziando a pensare un breve giro tra Svizzera e Francia. Ci sono alcune idee ed opportunità nel prossimo futuro alle quali però non voglio ancora accennare, ma di sicuro nel medio-lungo periodo la maggiore ricerca continuerà a essere su questo strumento, adottando sempre più un approccio acustico, senza processing e lasciando a margine il possibile utilizzo di un computer anche dal vivo, un po’ come si può vedere nel video girato da Daniele Pezzi.