GIANT SAND, Returns To Valley Of Rain
Si torna nella valle della pioggia, dove Howe Gelb e gli altri hanno mosso i primi passi nell’archeologico 1983 (la session venne registrata allora per poi vedere la luce nel 1985). Uscita nel pieno della canicola estiva e supportata da un tour che tra maggio e giugno è passato anche in Italia, questa riedizione del primo disco dei Giant Sand a opera della benemerita Fire Records (che da poco ci ha regalato anche nuovamente un bel disco di Bark Psychosis) ci consegna una band diversa da come la conoscevamo: un sound più irruente, meno dilatato, meno stratificato, meno affascinante. Questa almeno è l’impressione quando parte Tumble And Tear, un sghembo punk colmo di ruggine, con chitarre polverose ed appuntite, che suona un po’ interlocutorio. Il clima si fa più languido con la title-track, una sorta di Dylan (che palle, absit inuria verbis, ma a me non è mai andato moltissimo giù, pur riconoscendo – e ci mancherebbe – la statura mitologica dell’artista) elettrificato sotto un cactus dell’Arizona, ma, insomma, anche qua non c’è di che sobbalzare dalla sedia, anzi, semmai viene un po’ di abbiocco. Un altro rocchettone midtempo squadrato e senza grande inventiva, con una batteria che timbra il cartellino del quattro quarti ma poi ci regala un interessante stacco in cinque, è “Curse Of A Thousand Flames”, di nuovo assestata su coordinate country punk che però non hanno né il grezzo nitore del primo né la furia iconoclasta del miglior secondo. Un songwriting che evidentemente a quell’epoca doveva ancora sbocciare, un po’incerto né troppo personale, soprattutto nelle scelte timbriche che spesso rimandano al Neil Young elettrico senza però averne lo stesso carisma magnetico. “I’m A Walking Disaster In The Barrio”, canta il buon Howe, ma non v’è traccia dei suadenti misteri psichedelici che ci ha svelato lungo la sua sterminata carriera (vedi ad esempio “Chore Of Enchantment” del 1999 su Loose, oppure Cover Magazine del 2002 su “Thrill Jockey”, dove, tra i tanti, riprendevano i Black Sabbath con una clamorosa versione di Iron Man). Il nostro è anche in qualche modo, come è risaputo, il padre putativo dei Calexico, che erano inizialmente proprio la sezione ritmica di Giant Sand, ed esordirono con un paio di dischi fantastici (Spoke e The Black Light) prima di appiattirsi su una formula più pop che ovviamente ha regalato loro un grande successo. Quella capacità di aprire come il guscio di una noce una melodia, di qualsiasi foggia (mariachi, rock, jazz, pop) per estrarne un gheriglio dal sapore imprendibile e sempre delicatissimo e vagamente allucinatorio, qui non è ancora presente: siamo invece in presenza di una onesta (sic) band che può mettere in mostra senz’altro la voce da crooner del leader e sa perfettamente come amministrare la materia, ma non ha ancora passato una notte nel deserto in mezzo ai coyote con una congrua dose di peyote. In questo disco suonano ancora acerbi, a volte didascalici (“Torture Of Love”) certo, ci sono buoni numeri (la finale “Black Venetian Blind” è convincente), ma, restando in questo ambito, senza dubbio trovo più affascinanti le torrenziali sfuriate di Mr. “la tocco piano” J. Mascis con i suoi Dinosaur Jr., oppure il Mark Lanegan ancora in combutta con i fratelli Van Conner.
Un documento comunque interessante per cogliere i primi passi di una band che poi ha saputo evolversi e mutare pelle, come un crotalo, capace di inoculare un veleno mortale, mentre qui ancora la musica suonava in sostanza innocua.