GIANNI LENOCI: “La Danza dei Kabiri”
Nota di Nazim Comunale: Gianni Lenoci è stato un pianista, compositore, improvvisatore, didatta e agitatore culturale di Monopoli, scomparso a fine settembre a soli 56 anni. Insegnante al Conservatorio della sua città per una vita, tra le altre cose assistente di Roscoe Mitchell, ha lasciato una discografia sterminata e un’impronta profonda su molti che hanno collaborato con lui e che da lui hanno tratto insegnamenti su di un certo modo di guardare ai fatti della musica. Intellettuale curioso, ironico e non allineato, allergico al conformismo, Lenoci non ha avuto in vita la fama che avrebbe meritato: capace di spaziare dalla contemporanea all’elettronica, dall’astrazione impro alla canzone jazz, ci lascia in eredità un certo modo a 360 gradi e mai didascalico di guardare alla musica. Nella sua carriera ha avuto modo di studiare con Paul Bley e Mal Waldron, di collaborare con Steve Lacy, Giancarlo Schiaffini, Han Bennink, Antonello Salis, Paul Lovens, David Murray, William Parker e tanti altri. Impossibile racchiudere in pochi titoli il lavoro di un pianista davvero senza limiti, che ha messo le mani in una miriade di dischi: ai neofiti il consiglio magari è di cercare For Bunita Marcus, sul repertorio di Morton Feldman, edito da Amirani nel 2013, Earle Brown – Selected Works For Piano And/Or Sound-Producing Media (sempre su Amirani, 2018). Per quanto riguarda il lato più jazz, invece il disco con WIlliam Parker, Vittorino Curci e Marcello Magliocchi Serving An Evolving Hunanity (Silta, 2010) e Wet Cats, con il batterista siciliano Francesco Cusa (Amirani, 2017). Proprio a Cusa, amico, sodale di Lenoci e deus ex machina dell’etichetta Improvvisatore Involontario abbiamo chiesto un ricordo di un pianista di livello assolutamente internazionale. Circa un anno fa lo avevo intervistato per Alfabeta2, dove aveva avuto modo di dare dimostrazione della sua vastità di orizzonti e di pensiero.
Libera scrittura seguendo l’ascolto di: Earl Brown “Select Works For Piano And/Or Sound Producting Media”, Morton Feldman “For Bunita Marcus”, Sylvano Bussotti: “Brutto, Ignudo”
Non ho mai sopportato le analisi tecnico-formali di un’opera, men che meno quelle relative a un’opera musicale. Fissarne i punti, sceverarne e sezionarne le parti, mi è sempre parso un atto chirurgico da tavolo anatomico rispetto a ciò che è viceversa sempre vivo e pulsante. Per l’uomo antico smembrare gli arti di un animale rappresentava un atto sacrilego, orribile ed empio che occorreva sublimare tramite l’iniziazione funzionale al sacrificio (anche il normale pasto era considerato sacrale). Ciò lo debbo ancora di più alla memoria di Gianni Lenoci che del processo esoterico in arte era cantore.
Questo mio scritto sarà dunque una sorta di processo affine a quello della “scrittura automatica” (non letteralmente, in senso surrealistico: utilizzo questa definizione di comodo per indicare che è un processo determinato dalle musiche in ascolto) e seguirà il flusso sonoro di tre cd che vedono Gianni Lenoci al piano in solo: Earl Brown “Select Works for Piano and/or Sound Producting Media”, Morton Feldman “For Bunita Marcus”, Sylvano Bussotti: “Brutto, Ignudo” (qui in duo col clarinettista Rocco Parisi), tutti editi dalla Amirani Records di Gianni Mimmo.
Procedo con l’ascolto e la scrittura.
Ascolto questi lavori di Gianni Lenoci in ordine sparso, non sistematico. Salto da un cd all’altro per cercare di cogliere impreparato me stesso, in modo da non lasciar sedimentare lo svolgimento “logico” della fruizione. Emergono vari elementi dal suo ricercato pianismo; uno su tutti, l’inconfondibile matrice del suo suono, figlia di quel tocco da “ladro di portafogli” che lo contraddistingueva, rapidissimo e limpido. Il piano pare essere suonato da mani elfiche, e produce un suono che non “libera” ma tiene avvinti al disegno di un gesto che possiamo intuire anche solo dall’ascolto. A suonare è un mancato danzatore (si ascolti la sua interpretazione della “Novelletta Per Pianoforte” di Bussotti); altrove ho definito Gianni Lenoci un coreografo stanco di danzare, ma che si attivava all’improvviso tramite i suoi scatti espressivi che rimandavano a una sorta di elettricità dello spasmo che tante volte ho anche ritrovato durante i nostri concerti. La “riscrittura” delle partiture suonate nei cd rende fruibile tutta l’originalità dell’arte di Lenoci, come evidenziato dalle stesse note di copertina di quello sulla musica di Earl Brown da parte di Augusto Ponzio: “… si può dire tutto quello che abbiamo detto fin qui (…) con la musica stessa, con la scrittura musicale stessa, come riscrittura che sia, di nuovo questa musica, inedita, inaudita, nuova partitura all’ascolto coinvolgente fuori dai ruoli stabiliti e dai luoghi comuni? Sì, con Gianni Lenoci”. Ecco, io lo definirei, mentre ascolto nella notte “December” di Earl Brown, un musicista “impossibile”, perché, per queste atmosfere nebbiose e tetre evocate dal pezzo, par di vedere volteggiare le spire dei suoi infiniti arti e delle sue lunghissime mani… le sento avvolgere l’intera volta della mia stanza sotto forma di entità gassosa. Riferisco di una sensazione fisica di questo fenomeno, fortemente tangibile, richiamata dal potere esoterico ed evocativo della musica, della “sua” musica, che si fa spazio, suadenza e trillo demoniaco, a seconda delle necessità del tempo e degli istanti irripetibili che compongono l’esistenza.
Il pianismo di Gianni Lenoci è “interno” che si fa “esterno”, immanenza che riempie ciò che non è colmabile (ascolto “Twenty-Five Pages”), vuoto che s’addensa nel gioco di prestigio delle falangi, “ontologia del martelletto”. Egli usa l’intero spettro delle potenzialità esperibili dello strumento per affermare una “verità”, officiando, per tramite del gesto pianistico, il sacrificio di ogni singola nota. Nell’atto del suonare, Lenoci viene meno al decoro della sua forma: dismette allegoricamente il suo abito sociale per trasformare la sua fisicità terrena in pura essenza (ascolto ancora una volta “December”), in altre parole, egli diventa sacerdote del Divino e sposa appieno la sua natura spirituale, conferendo sacralità al “mestiere” dell’artista.
È facile, anche per un orecchio profano che abbia la ventura di accostarsi a queste interpretazioni dell’opera dei tre compositori su citati, constatare quanto il microcosmo di Lenoci sia espressione di una trascendenza prodotta artificialmente dalla matericità dell’esistenza, perché ogni rimando è all’altrove, a ciò che non è esprimibile con gli strumenti della tecnica (ascolto Music for “Trio for Five Dancers”). E sembra di vederli questi danzatori sonori, come forme eteriche e viventi che provvedono a modellare in qualità di piccoli kabiri la Donna-Cicogna che “l’Eumolpo” Lenoci evoca tramite il suo processo di indefessa creazione. Queste proprietà del demiurgo sono raramente presenti in tali dosi nella singola esistenza di un’artista. Intendo far con ciò riferimento alla densità che era in grado di generare la poetica espressiva di Lenoci, densità particolarmente riscontrabile in queste tre opere e che è frutto del suo approccio diretto allo strumento, che risultava magnetico, ma mai ossessivo (Lenoci non deve domare la belva-pianoforte, perché essa è promanazione del suo corpo, vive e si nutre della sue stesse brame e passioni).
Ma è soprattutto con “For Bunita Marcus” che sento emergere la sideralità del Tremendo come scarto e quintessenza di vibrazione, proprio nei silenzi, nelle pause fra una nota e l’altra, in ciò che rimane dopo un accordo, in tutto ciò che preme e deborda fuori dalla palingenesi del suono. Le note di Gianni Lenoci descrivono un universo possibile e antropomorfo in un contesto alieno, inconcepibile e astratto. Si impone, in questa sua capacità di reinterpretazione-traduzione delle opere trattate, il superamento del contesto storico e progettuale in cui tali componimenti sono storicamente collocati. Lenoci reinventa quelle partiture, sottraendole perfino ai riferimenti all’arte visiva d’un Rothko e ai suoi “aneliti d’infinito”, a tutto ciò che rappresenta quel circolo di musicisti che si formò intorno a John Cage verso la fine degli anni Quaranta (Earle Brown, Morton Feldman, David Tudor e Christian Wolff), all’astrattismo… per farne altro, una specie di sostanza sonora straniante che ci parla di quanto effimero sia questo ritaglio di non-Tutto dal Tutto. Il mondo sonoro che ci lascia Gianni Lenoci è quello di un pianeta che si è oramai dissolto nella sua essenza gassosa dopo milioni e milioni di anni. Un luogo dove altre entità lavorano per costruire un nuovo senso, la nuova era di Vulcano, era in cui l’uomo sarà soltanto pura essenza di sacralità.
(Gianni Lenoci non c’è più… si aprono gli spazi del sonoro di “For Bonita Marcus” al suo percorso spirituale che lo porterà verso i più alti mondi dello Spirito. Spengo il lettore cd).