Giancarlo Tossani: nodi in attesa di un destino
Knots And Notes è un buonissimo disco uscito da poco per Auand a nome Big Monitors, un quintetto guidato da Giancarlo Tossani (piano, wurlitzer, virtual synths) con i fratelli Bondesan (Tobia al sax alto e Michele al contrabbasso), Andrea Grillini alla batteria, Gabriele Mitelli (cornetta, flicorno alto e synth modulari) e Amanda Noelia Roberts ospite alla voce in due pezzi. Il lavoro, in tredici tracce, prende spunto dalla musica del grande William Parker e, tra numeri autografi e convincenti versioni, propone, più che un tributo, una libera interpretazione dell’arte di un musicista senza tempo. Era dunque il caso di approfondire un poco il discorso con il leader della formazione, Giancarlo Tossani.
Nell’ultimo, magnifico, enciclopedico box di William Parker, Migrations Of Silence Into And Out Of The Tone World, da poco uscito su Centering Music/Aum Fidelity, c’è una frase che mi ha colpito molto: “Improvisation is another word for love”. Knots And Notes è un disco tutto scritto o avete lascio spazio per la creazione istantanea? Qual è il tuo rapporto con l’improvvisazione?
Giancarlo Tossani: Ecco vedi. Eccoci subito ai nodi, nodi d’amore, di sicuro è necessario un legame amoroso coi tuoi partner e con chi ti ascolta. Anche se si improvvisa da soli non si è mai soli, ci si rivolge e ci si confronta sempre con qualcuno in absentia. Amore e improvvisazione sono, diciamo, uno stato creativo e di apertura che hanno parecchie cose in comune, ovviamente anche gli errori. Quanto alle mie partiture, che siano più o meno articolate, lasciano – anzi richiedono sempre – l’apporto degli altri musicisti, che sono a tutti gli effetti parti integranti della partiture. Oltre al testo, diciamo seminale, della composizione, ogni musicista dà vita a un sotto-testo, a una molteplicità che confluisce in una tessitura comune. Come in ogni conversazione una piega inaspettata può rivelarsi estremamente interessante e feconda, come pure il rischio sempre presente è quello di perdere il filo. Ma più che usare meccanismi precostituiti e strutture rigide per articolare il discorso, è importante seguire il principio di un ascolto reciproco attento e stimolante. Per me l’improvvisazione è innanzitutto piacere della sorpresa, del momento in cui raggiungi la cosa che risuona in modo particolare e che in un certo qual modo percepisci come agìta da qualcun Altro, un po’ come ascoltarsi dall’esterno. È una sensazione difficile da spiegare, ma senza orientalismi, spiritualismi o roba del genere.
La metafora del nodo che usi mi fa pensare alla navigazione, ma non solo: nel jazz i cambi di equipaggio spesso sono la regola, e le rotte possono cambiare anche in corso d’opera; a che tipo di viaggio sei interessato tu, e credi che i nodi vadano necessariamente tutti sciolti per salpare in musica, o che possa essere interessante anche capire perché si formano (penso ad esempio a Lacan e alla relazione nodale da lui teorizzata tra Reale, Simbolico ed Immaginario nello spazio abitato da chi parla)?
L’idea guida, il filo rosso, un termine che ha origine marinaresca tra l’altro, del progetto è quello del nodo. Si fa subito nodo già nelle parole del titolo del cd, nella grafia e nella pronuncia, quasi omofona, di Knots Notes. Nel nome del gruppo, Big Monitors, che altro non è se non l’annodarsi delle lettere iniziali dei cognomi dei componenti. Il nodo che lega qualsiasi espressione collettiva del suonare, a seconda delle situazioni formali con un grado più o meno vincolante. Il nodo che abbiamo fatto alla musica di William Parker. Il nodo che lega le generazioni dei musicisti, un aspetto più spiccato nel jazz che altrove. Per tornare alla tua domanda, immagino che tu ti riferisca al nodo borromeo nella teoria di Lacan. La risposta nella teoria psicanalitica è che questo nodo è indispensabile perché abbia luogo la soggettività. Pensare di poter sciogliere tutti i nodi, quindi, è più che altro un’illusione propria al campo dell’Immaginario. Credere che sia possibile annodare tutto appartiene del resto alla stessa illusione, di tipo paranoide stavolta. Bisogna quindi sì sciogliere nodi ma anche formarne. Come si dice… Non buttare il bambino con l’acqua sporca. L’ampiezza dei significati in uso nella lingua esprime immediatamente la complessità di questo concetto, ampio e ambivalente. Nodo come intreccio, che può essere legame positivo ma anche negativo e costrittivo. Ornamento e bellezza ma anche groviglio, confusione, impedimento. Il nodo fra le persone è una relazione decisamente complessa. Anche nella musica non può che essere così. Nel voler annodare la nostra a musica a quella di William Parker ci siamo confrontati con la molteplicità di questi aspetti. Non è quindi un semplice “tribute to” o una riproposizione tout court. Per rendere ancor più evidente questa intenzione, in più di un caso, alle sue composizioni si sono annodate senza soluzione di continuità composizioni originali. È piuttosto un salpare da un porto e raggiungerne un altro, per restare alla tua immagine nautica. Ho poi voluto che i brani “principali” e più strutturati fossero intervallati, nella nostra ottica quindi diremmo annodati tra loro, da brevi momenti alla cui base stava un semplice idea musicale estemporanea, con organici differenti, a forte tasso di improvvisazione collettiva. I titoli, infatti, indicano diversi tipi di nodi: Slipped, Binding, Sennit, Lashing, Whipping, Hitch.
Per farla breve, come dice lo stesso William Parker: Suonare la musica di qualcun altro è una faccenda veramente delicata. Il miglior approccio alla musica di qualcun altro è di fare le cose in una propria chiave [lo si trova in Marcello Lorrai, William Parker. Conversazioni sul jazz]. Lui stesso ci ha fatto omaggio di buone parole e ringraziato: Giancarlo Tossani and Big Monitors have created a new sound from my compositions giving them a new life, this is always an exciting treat. Also I enjoyed the original compositions. Getting to the essence of the music; unique arrangements andperformances not only of my music but their own compositions. “Knots and Notes” rises up and takes off. All that we can ask of any musician is to be oneself. This music finds its own voice. A voice that is much needed in this time. Great Job. Thank you for the Music.
Nella cartella stampa racconti di un non essere un fan accanito di William Parker; come ti sei mosso nella scelta del repertorio per il disco?
Come ho già avuto modo di dire, questa idea è nata quando Michele Bondesan mi ha proposto alcuni brani di William Parker come base per un concerto che avevamo in programma ovvero: In order to survive, Hunk Pappa Blues, O’Neal’s Porch e Old Tears. Avevamo quindi già una lista abbastanza corposa. Poi, dopo un ascolto attento, ho trovato un altro paio di cose, Vermeer, a cui fa da complemento il brano originale Mr Reeve (un po’ come Dr Jekyll e Mr. Hyde. Qualcos’altro è in filigrana come per esempio I had a Dream Last Night e Flag nella traccia più elettronica ossia Autumn Leaves (non quella famosa).
Quali i musicisti ed i dischi fondamentali nel tuo percorso?
Suonare è anche un processo di ascolto e infatti sulla copertina del mio primo disco citavo una frase di J.L. Borges, una sorta di dedica a tutta quella musica che aveva reso possibile la mia. “Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto, io sono orgoglioso di quelle che ho letto”. Quindi direi senz’altro Paul Bley tra i pianisti. Franco D’Andrea tra i maestri. Poi ovviamente Ornette Coleman è uno di quei musicisti che più di altri mi hanno indicato un nuovo orientamento, che mi ha aiutato a svincolarmi da rigidi parametri di armonia, melodia, ritmo, spingendomi a ragionare in modo differente e a considerare la musica più in termini di equilibrio e di flusso, di dialettica tra formale e informale, a trovare uno spazio sonoro particolare. Ma ovviamente c’è dietro una lunga storia personale fatta prima di rock, di prog, di jazz. Un elenco troppo lungo. Ti direi Bitches Brew o in generale Miles Davis, giusto perché è un po’ il Kubrick del jazz, in ogni genere e momento è sempre stato il top. Tim Berne, che ho avuto la fortuna di vedere e ascoltare dal vivo fin dagli anni ‘80. Attualmente una delle cose che trovo più interessanti è Craig Taborn. Mi viene in mente ora che a entrambi ho organizzato un concerto, a Miles Davis purtroppo no!
Mi racconti il tuo primo ricordo musicale?
Non saprei dirti qual è il primo, tutto per me cominciò comunque quando mio padre tornò a casa con un organo elettronico, ne ricordo ancora il modello: Bauer Combo.
Come funziona l’alchimia in una formazione come Big Monitors, dove convivono generazioni lontane e diverse?
In Big Monitors abbiamo un bell’assortimento di generazioni. Un boomer (io), quattro millennials (Michele e Tobia Bondesan, Mitelli, Grillini), una zoomer (Amanda Roberts) oltre che l’assente, ma tuttavia presente, boomer William Parker. Un bell’assortimento. Penso di poter dire, parlo per me ma credo valga per tutti, che ci si è trovati assolutamente a proprio agio sia dal punto di vista musicale che umano. Sono musicisti formidabili, giovani e già con background di tutto rispetto. Ma l’idea era proprio di sottolineare che, in modo maggiore che altrove, il jazz è anche questo: un nodo fra le generazioni, che va incoraggiato, nella musica come nella società. Nel jazz capita frequentemente che musicisti più anziani chiamino a suonare con sé musicisti più giovani. In questo caso però la prospettiva è diversa, la scintilla scaturisce dal fatto che Michele Bondesan, che ha meno della metà dei miei anni, mi ha proposto dei brani di William Parker nei cui riguardi, si badi bene, con il massimo rispetto e ammirazione, ho un interesse relativo, sostanzialmente per il fatto che apparteniamo più o meno alla stessa generazione musicale e abbiamo una stessa sintonia di fondo.
Insomma, non ho chiamato musicisti più giovani per suonare la mia musica perché la “ringiovanissero”. Ho, come dire, risposto a una sollecitazione inversa e mi sono posto una domanda. Come una diversa generazione ascolta, intende e interpreta una certa musica, magari già storicizzata, rispetto a chi, come me, ha un percorso storico-musicale differente e la ascolta con orecchie diverse? Questo cosa aggiunge e cosa ci si scambia? Il risultato di questa rivisitazione poi lo testimonia in qualche modo? Il giudizio ovviamente spetta agli ascoltatori.
Dal tuo punto di vista, pandemia a parte, qual è lo stato di salute della musica creativa in Italia?
C’è molta buona musica in giro. Difficoltà pratiche sono legate alle sempre troppo limitate risorse dedicate al jazz, fortemente presente nell’immaginario musicale dei media ma ancora troppo scarsamente presente nelle politiche reali. Ci sono in giro un sacco di giovani musicisti preparatissimi e strabilianti, purtroppo manca un ricambio generazionale negli ascoltatori, il pubblico è troppo âgée e così pure, troppo spesso, gli operatori del settore. Insomma, al problema generale della mancanza di opportunità dei giovani si unisce quella della poca diffusione e concreta conoscenza della musica jazz. Ça va sans dire? Serve maggiore attenzione da parte delle istituzioni e maggior attivismo e comunanza da parte dei musicisti. Tutti nodi che la pandemia ha evidenziato e acuito.
Leggo nella tua bio di studi filosofici: c’è un pensatore che ispira o guida il tuo agire in musica? O è la musica stessa che è filosofia, in qualche modo? Dove la incontri la musica? La capti nell’aria, la insegui sul foglio, la vedi? Come sono nati ad esempio i tuoi temi in questo disco?
Mi fanno spesso questa domanda, in realtà direi che nella musica mi sforzo di non concettualizzare troppo il mio lavoro, anche se poi innegabilmente un po’ ci casco. Cerco di non teorizzare troppo, di non sovrapporre una grammatica al risultato, ma certamente ho bisogno un pensiero, di una direzione. Non c’è nessun pensatore in particolare ma certamente quello di cui la filosofia in genere può renderti consapevole, per esempio, è la complessità. Non sono un compositore prolifico e instancabile come William Parker che, come dichiara, ogni giorno scrive qualcosa, del resto il suo 10 cd-box ne è la riprova. Non ho questo bisogno quasi “fisiologico”. In genere quel che mi muove è un obiettivo. Un progetto è ciò che mi fa cercare la musica. Quindi in realtà è una ricerca, non casca tra capo e collo. Accumuli cose, poi selezioni: un processo di raffinazione. Più sul foglio che nell’aria. Talvolta invece capita, basta un ascolto e ti si aprono le porte. Quanto a questo cd buona parte delle cose originali era materiale giacente e in attesa del suo destino.