Giacomo Zanus, il cinema dell’attesa
Giacomo è un chitarrista veneto, di stanza da poco a Bologna per studiare improvvisazione elettroacustica al Conservatorio Martini, luogo animato tra gli altri da Francesco Giomi di Tempo Reale, dove pochi mesi fa ha tenuto un laboratorio sulla voce il compositore Luigi Ceccarelli, che abbiamo intervistato. Ad altri ambiti e ad un’altra generazione appartiene Zanus, musicista dagli interessi e dagli orizzonti ampi, già dotato di una personalità e di una pronuncia ben definite sia a livello di strumento, sia a livello di scrittura, doti che emergono in modo delicato e prepotente nell’ottimo Kora, album tra i migliori dell’anno appena trascorso, suonato in quartetto con Giorgio Pacorig, Marco D’Orlando e Mattia Magatelli, pubblicato dall’indomita Aut, responsabile nella seconda metà del 2021 di altri dischi da non lasciarsi scappare, ovverosia Approximately Grids With A Plan di Luca Perciballi Organic Gestures Trio (ne riparleremo presto) ed Elements del duo Puglisi / Sommer.
Era il caso di provare a entrare da vicino nei mondi di questo musicista talentuoso, sensibile, intelligente: un nome su cui scommettere ad occhi chiusi per il prossimo futuro.
Partiamo dalla fine, citando un pezzo verso la coda del disco, l’unico improvvisato a otto mani: “E tu, che cosa cerchi?”
Giacomo Zanus: Il titolo di questa improvvisazione rende omaggio ad una lettura che stavo affrontando un paio d’anni fa, che è l’opera incompiuta “Il Monte Analogo” di Renè Daumal.
“E tu che cosa cerchi” doveva essere l’ultimo capitolo di questo romanzo, una sorta di viaggio metaforico alla ricerca interiore dei propri limiti (emergono alcune analogie con gli scritti di Gurdjeff). Mi colpì molto la struttura del libro, in pieno stile Jules Verne, per intenderci, ma, appunto, con una riflessione più profonda sul nostro essere, e fin da subito mi è sembrato di ritrovare al suo interno alcune analogie con lo spirito esplorativo dell’improvvisatore. Pensandoci bene, alla fine ciò che facciamo attraverso la pratica improvvisativa è percorre sul momento dei territori che solitamente non si prendono in considerazione, cercare di convivere con il rischio ed accettarne le conseguenze. In un contesto collettivo la componente di fiducia in qualcun altro può comportare dei rischi importanti ma al tempo stesso condiziona una sfida ancora maggiore: imparare a fidarsi di sé stessi. Secondo me questa visione implica già una forma di ricerca, è già un percorso che conduce altrove, un mettersi in gioco liberandosi da forme precostituite. Poi nello specifico credo che la domanda posta da Daumal sia talmente profonda che è difficile dare una risposta concreta e definitiva. Per quanto mi riguarda, seppur consapevole dei miei obiettivi e delle mie aspirazioni, posso dire che mi confronto ogni giorno con questa formula e giorno dopo giorno alimenta in me uno stimolo a progredire come artista e come persona. Sarebbe stato bello scoprire il seguito del romanzo e l’interpretazione di Daumal…
Leggo tra i credits il nome di Asso Stefana: in qualche frangente del lavoro ho intravisto ombre morriconiane filtrate dal mood che anima Guano Padano. Un abbaglio per il troppo sole? Eppure siamo a novembre, nel pallido e freddo Nord.
“Asso” è uno dei miei musicisti preferiti, provo grandissima stima per lui per la sua originalità e per la creatività che mette al servizio della musica. Collaborarci è stato veramente una bella esperienza, nata grazie a Zeno De Rossi che mi ha introdotto al mondo Guano Padano. Diciamo che già in fase di preparazione dell’album sentivo la necessità di ampliare la componente timbrica del quartetto attraverso sonorità e strumentazioni specifiche. Volevo creare all’interno dei brani una situazione dinamica, libera da certi canovacci puramente “jazzistici”, predisporre un’esperienza creativa in cui poter lavorare poi in fase di mixaggio ed Asso si è rivelata la persona giusta con cui condividere questo materiale. Le giornate passate assieme presso il suo Perpetuum Mobile tra tastiere varie, harmonium, clavicembali, echi a nastro, lap steel e chitarre d’annata sono state una delizia!
Poi, certo, questa sorta di collaborazione è sicuramente condizionata da riferimenti cinematografici e sonorità in comune con Guano Padano: l’esempio che hai riportato calza a pennello. Ma al di là di specifici accostamenti, sono semplicemente un amante del cinema e di una certa poetica cinematografica, oltre che affascinato dal potere evocativo della letteratura. Diciamo che delle volte le due cose si fondono e creano delle suggestioni particolari. Nel caso specifico di Kora gli elementi evocativi del viaggio, della strada, del sogno (cito anche i testi di Alan Watts presenti in “Nature of Consciousness” come riferimento) affiorano in pezzi come “The Dream Not Yet Dreamed” o in “Charmolypi/Mystikòs”. Insomma, Kora vive di molti riferimenti visivi ed immaginari, talvolta espliciti, talvolta celati dietro un velo di mistero (per l’appunto “Mystikòs”: dal greco nascosto, segreto…)
Mi racconti il tuo primo ricordo musicale?
Wow, qua c’è da fare un salto temporale importante… Dunque, credo che il mio primo ricordo musicale sia legato alla figura di mio nonno materno, il quale, seppur privo di una formazione musicale, fin da giovane è stato un frequentatore del coro parrocchiale e di un piccolo coro folkloristico della zona (provengo da un piccolo paese delle Prealpi Trevigiane). Ricordo che da piccolo (6-7 anni) era solito portarmi con lui alla messa domenicale dove mi accorsi subito che il coro rappresentava un vero momento aggregativo, o meglio una sorta di comunità a parte del tutto particolare… Intanto si trovava isolato in fondo alla chiesa e per raggiungerlo si dovevano salire delle scale. Una volta in cima la disposizione prevedeva: organista al centro, a destra gli uomini, a sinistra le donne. Il settore maschile aveva un’età media di 70 anni, penso (ed io la abbassavo di molto!), ma la cosa mi divertiva poiché in quello spazio isolato, eccezione fatta per gli interventi canori in cui cercavo anch’io di rendermi partecipe, la fede religiosa per un momento passava in secondo piano. In tal senso, una figura di riferimento era il vecchio maestro elementare del paese a cui veniva concessa la possibilità di isolarsi nell’angolo per leggere in tranquillità il suo quotidiano appena acquistato. Della serie, va bene la chiesa ma l’informazione prima di tutto… Vicino a lui sedeva invece la “vecchia guardia”, che a bassa voce (ma poi non così tanto bassa) discuteva spesso di attualità, ovverosia: taglio della legna e manutenzione dei boschi, passaggio di proprietà dei terreni agricoli, considerazioni sulla vendemmia, stato di salute e pettegolezzi vari dei paesani, insomma tutte le priorità di un piccolissimo paese di provincia legato ancora ad una certa ruralità e soprattutto dove tutti conoscevano tutti! Io mi trovavo da una parte magnetizzato dall’organo a canne, questo strumento così maestoso a pochi centimetri di distanza, dall’altro invece scrutavo attentamente ed ammiravo una generazione che trovava in quell’occasione domenicale un’ulteriore opportunità di aggregazione e socialità. Altri tempi.
Cosa ti ha portato dal Veneto a Bologna? Come ti trovi in Emilia? Io ci ho studiato a partire da metà anni ‘90, vivo a Reggio Emilia. Mi racconti il tuo punto di vista sulla città, sulla sua scena musicale?
A Bologna ci sono appena arrivato per studio. Frequento un biennio di improvvisazione elettroacustica presso il dipartimento di Musica elettronica del Conservatorio ma al momento mi muovo ancora molto tra l’Emilia e il Veneto, quindi non saprei riportare una considerazione vera e propria sulla città. Magari tra qualche mese potrò dare il mio feedback in merito. Sicuramente ho molte aspettative e al di là del periodo storico un po’ particolare per tutta l’attività artistica, sono convinto che Bologna rimanga sempre una città con un’offerta importante dove gli stimoli di certo non si fanno mancare.
A breve tra l’altro suonerà lì il Trio di Zeno De Rossi con il quale condividi il grande Giorgio Pacorig: alcune atmosfere mi hanno riportato proprio dalle parti di Elpis. Che mi dici?
Dico che Zeno è un musicista speciale a cui sono molto legato. Lo conosco musicalmente fin dai tempi del collettivo El Gallo Rojo, che scoprii intorno ai diciott’anni. In quel periodo iniziavo a studiare e praticare veramente la musica jazz ed ovviamente avevo come riferimenti i maestri del jazz afro-americano. Conoscevo pochissimo invece la scena europea ed italiana. Un giorno mi fecero ascoltare un disco del quartetto di Franco D’Andrea con Zeno alla batteria, mi sembra, pubblicato per un’etichetta indipendente di cui si parlava molto bene in quel periodo e da lì mi addentrai nella realtà di El Gallo Rojo. Fu davvero una scoperta sorprendente e anche stimolante poiché mi introdusse alla scena locale e mi fece pensare “ah, il jazz qui da noi è anche questo, wow!”.
Poi ho incontrato Zeno di persona qualche anno fa (proprio nel periodo in cui il suo Elpis era in fase di lavorazione) grazie a Giorgio Pacorig. Giorgio è la figura centrale di entrambi i nostri progetti e forse il fatto di condividere nella formazione una personalità molto forte e riconoscibile come la sua in qualche modo evidenzia alcune sfumature timbriche comuni. Quando iniziai a comporre questi brani per il quartetto pensai subito a un musicista con un’espressività tale da avere – sia al piano che al Rhodes – un forte impatto sul materiale proposto e da questo punto di vista la voce di Giorgio Pacorig credo sia sicuramente una delle più originali e caratteristiche presenti in Italia. Poi devo dire che per certi aspetti mi sento stilisticamente molto vicino ad entrambi questi musicisti poiché abbiamo degli “hero” in comune che sono lì in alto e non si toccano… A tal proposito recentemente io e Zeno abbiamo collaborato assieme in un progetto speciale dedicato al batterista Paul Motian (parlando di “hero” e figure speciali che hanno lasciato il segno; tra l’altro ricorreva lo scorso novembre il decennale della sua scomparsa). In pieno lockdown a gennaio 2021 Zeno ha pensato di registrare a distanza 12 duetti con 12 chitarristi della scena nazionale, duetti illustrati per l’occasione anche da delle tavole dall’artista fiorentino Francesco Chiacchio e pubblicati poi mensilmente durante tutto il 2021. Per me è stato un gran piacere far parte di questa iniziativa assieme a colleghi ed amici che ammiro moltissimo ed omaggiare un artista che ha profondamente segnato il mio percorso musicale. Per chi volesse ascoltare, tutte le tracce del progetto si possono trovare sulla pagina Bandcamp di Zeno.
Nel disco collabori con musicisti del FVG: a cosa attribuisci questo alto tasso di creatività e questo grande numero di musicisti coraggiosi, indipendenti, talentuosi? Mi è capitato in passato di conversare con Giovanni Maier, coi Maistah Aphrica, con Stefano Giust, con Paolo Pascolo, e magari mi scordo pure qualcuno ora. Il confine, la grappa o che?
Ci sarebbe molto da dire sulla scena musicale dell’estremo Nord-Est, in particolare per quanto riguarda l’ambito improvvisativo: dal jazz contemporaneo al free jazz, all’improvvisazione libera, alla musica elettronica. Hai riportato due termini che secondo me già racchiudono delle sfumature di questa area geografica: coraggio ed indipendenza (quest’ultimo forse lo muterei in “appartenenza”).
Credo che in qualche modo siano due caratteristiche intrinseche di questa area geografica, aperta da sempre alle contaminazioni grazie all’atmosfera mitteleuropea che la contraddistingue e al confine che si sa porta sempre ad una commistione di elementi, è crocevia di culture diverse. Allo stesso tempo, però, questa regione possiede dentro di sé anche uno spirito di appartenenza ben radicato (penso al Friuli e al suo forte legame con la terra, la lingua, la sua tradizione). Con quest’ottica vedo anche le figure che da anni guidano una sorta di movimento musicale, alcuni li hai già citati tu: sicuramente fra questi c’è Giovanni Maier con il quale ho avuto modo di studiare presso il conservatorio di Trieste e se penso a lui mi viene subito in mente anche la realtà DobiaLab sinonimo proprio di contaminazione ed innovazione. Poi ci sono i vari Zlatko Kaučič che nella terra di confine con la Slovenia ha creato ormai un collettivo di artisti italo/sloveni che fanno dell’improvvisazione radicale e della sperimentazione il proprio credo. Lo stesso Stefano Giust, fondatore della longeva etichetta “Setola di Maiale”, o ancora Daniele D’Agaro, Glauco Venier e molti altri per quanto riguarda la musica jazz. Insomma credo che in generale il movimento creato da queste figure sia una sorta di àncora per i più giovani, dei riferimenti che aiutano a crescere in un contesto diversificato ma sempre e comunque creativo, con una visione ampia a 360° sul mondo dell’improvvisazione. Poi di sicuro un bicchierino di grappa da quelle parti non si rifiuta mai…
Nei brani avverto una grande attenzione alla melodia (quel quasi carillon sul finale della prima traccia) ma al tempo stesso tutto resta per aria, mai telefonato. Come sono nati i brani, da quali suggestioni? L’Africa evocata nel titolo sta, come quella di “Azzurro”, in giardino tra l’oleandro e il baobab?
Hai ragione, l’aspetto melodico è senz’altro asse portante di questi brani.
L’intento principale del lavoro era proprio quello di accostare questa componente lirica con una libertà espressiva lontana invece da stilemi o da un linguaggio predominante. Nel disco convivono infatti brani totalmente scritti a tavolino da capo a coda ed altri invece che alternano momenti di scrittura con delle finestre di improvvisazione libera. Questo accostamento è dettato proprio dalla necessità di conciliare un istinto “razionale” (quello compositivo) con un approccio invece più “animalesco” che trova spazio nei momenti più spigolosi ed astratti dell’improvvisazione o ancora nei colori di alcune scelte timbriche.
Le suggestioni che hanno influenzato il processo di scrittura in realtà provengono da contesti molto diversi. Sicuramente l’ascolto di moltissima musica sacra europea ed in generale di musica classica contemporanea ha giocato un ruolo importante nel rendere l’elemento tematico il riferimento centrale delle composizioni. Pezzi come “Something Lost, Something Gained”, “Let Kindness Lift Your Soul” o ancora “Postludium” sono brani che manifestano una narrazione molto intima, quasi cameristica. In tal senso una figura molto importante che ha condizionato il mio processo compositivo e l’utilizzo di questo approccio è la musicista estone Maria Faust. In particolare ricordo un suo live presso una chiesa sconsacrata a cui assistetti durante il Copenhagen Jazz Festival nel 2018, fu davvero qualcosa di molto forte ed intenso che mi stravolse completamente.
Per quanto riguarda il titolo, invece, la parola Kora in questo caso non fa riferimento allo strumento africano bensì alla pratica meditativa tibetana messa in atto come cammino di venerazione ai piedi di una montagna sacra locale. Questa forma di pellegrinaggio viene manifestata attraverso un percorso circolare e la cosa mi colpì soprattutto se accostata alla realtà occidentale (noi tendiamo sempre alla conquista, salire in alto le cime per piantare croci come simbolo di superiorità, di vittoria, di dominio). Mi sembrano due gesti completamente diversi, il primo di compassione e comprensione, il secondo di affermazione e di violenza. La figura del cerchio, quindi, non implica nessun punto di arrivo, nessuna meta prestabilita, nessuna affermazione e personalmente tramite questa associazione simbolica rivedo molto della musica di Kora.
Talvolta i pezzi sono attraversati da un vento desertico ma non si capisce – e va bene così – se si tratta del deserto del Sahara o di Sonora. A tratti mi viene in mente anche il Frisell affacciato sui panorami oceanici del Big Sur.
È vera questa tua sensazione e qui mi ricollego a quanto espresso in precedenza. Credo derivi dal fatto che nel disco coesistano suggestioni musicali molto diverse tra loro ma riunite nel segno di un comune denominatore che è la melodia. Hai fatto centro nel nominare Frisell poiché assieme a Charlie Haden e lo stesso Paul Motian sono da sempre dei miei punti di riferimento assoluti che esprimono una certa essenza nel loro messaggio, nella loro musica.
Credo che in qualche modo le melodie composte per Kora siano filtrate fondamentalmente da un senso di purezza che risuona dentro di me e che trova voce nella descrizione di un paesaggio, di un sentimento, nella rappresentazione di un’immagine. Forse anche per questo motivo risulta una musica facilmente accostabile ad un immaginario “cinematografico”: ho sempre trovato naturale cercare di narrare qualcosa attraverso un’evocazione o un elemento timbrico piuttosto che tracciare in primo piano un fraseggio dirompente.
In tal senso l’elemento principale per me resta sempre quello di veicolare attraverso la musica un’immagine, una sensazione. Poi spetta proprio all’ascoltatore coglierla e renderla personale.
Trio, solo, il quartetto Kora: hai in cantiere qualche altro assetto da sperimentare?
Fino ad ora ho sempre preferito comporre musica per piccole formazioni e se devo essere sincero non mi sono mai chiesto la vera ragione di questa scelta. Ovviamente la scelta dell’organico è sempre ponderata e meditata ma credo ci sia in ballo anche una spontaneità dettata dalla necessità espressiva e dal carattere specifico di una persona. In tal senso adoro dar risalto ai particolari, all’essenziale, alle piccole cose (talvolta sussurrate) e forse anche per questo mi sento a mio agio in un contesto fatto di pochi elementi dove c’è una gestione più equilibrata degli spazi. Tuttavia ci sono anche altri elementi musicali che mi interessano molto, tra cui il contrasto, la contraddizione e la ricerca timbrica. Non escludo quindi in futuro un ensemble più allargato per intraprendere appunto tutt’altre sonorità ed altri territori. La componente esplorativa di sicuro è parte integrante della mia ricerca. Per ora conto di ultimare e pubblicare nel 2022 due lavori in dirittura d’arrivo, uno è il mio solo in chitarra ed elettronica che uscirà a breve in digitale (e forse in audio cassetta edizione super limitata), l’altro – a cui sono molto legato – è invece un trio con piano e voce nato all’interno dei Laboratori Permanenti di Ricerca Musicale presso Siena Jazz e a cui verrà dedicata un’uscita speciale, già non vedo l’ora.
Belle le foto sul tuo sito: mi racconti di questa passione? Nelle immagini trovo un riflesso del modo in cui componi, in qualche modo.
Ti ringrazio per aver colto questo particolare legato alla fotografia.
Sì, in modo del tutto amatoriale e privo di ambizioni, da un po’ di anni mi son appassionato al mondo della fotografia analogica attraverso un approccio che definirei “spirito libero intuitivo”.
In realtà l’avvicinamento al mondo della pellicola lo trovo anche qui molto influenzato dalla pratica improvvisativa. Magari può sembrare concettualmente scontata come analogia, ma credo che nella scelta di un determinato soggetto, nello scatto di un determinato istante sia racchiusa anche l’unicità di quel specifico momento, la prontezza e la capacità di vivere il presente (per riprendere il concetto latino “hic et nunc”) e questo per me è il filo conduttore delle due pratiche.
Tra le altre cose poi nella fotografia analogica, non essendoci la possibilità di salvare e rivedere l’immagine, si crea un “punto di non ritorno” ma al tempo stesso di presa coscienza che mi affascina incredibilmente poiché rende l’intero processo qualcosa di unico e prezioso. Il peso dato ad ogni azione è frutto di una totale consapevolezza e di un’attenta valutazione: una piccola responsabilità a cui dobbiamo far fronte per preservare quell’istante che diventa davvero magico. La mia sensazione e lo stato d’animo quando mi trovo in giro per fotografare è quello dell’auto isolamento, un po’ come vivere al rallentatore all’interno di una bolla invisibile.
Tutto questo si traduce in linfa vitale capace di creare uno stacco temporale e percettivo con alcune sfumature controverse, fuorvianti e dannose del presente. Nell’era del “tutto e subito”, anche la semplice attesa per lo sviluppo della pellicola, sperare nella buona riuscita delle foto, l’intero processo che porta alla comparsa dell’immagine rappresenta un ulteriore componente di magia. Mi piace definire il tutto “l’arte dell’attesa”.