GANDHI’S GUNN, The Longer The Beard The Harder The Sound
Le barbe (vere) forse si sono accorciate rispetto a quanto si vedeva nella foto che girava in internet nell’aprile 2011, all’uscita dell’album di debutto Thirtyeah. Sicuramente però la musica e l’intensità del suono dei Gandhi’s Gunn sono da “barbuti dentro”, come un po’ tutti gli uomini e le donne (eh sì) dediti – in qualità sia di artefici sia di fan – alla musica pesante underground ispirata al rock degli anni ‘70, allo stoner/desert rock, al doom, allo sludge… E il nuovo album dei Gandhi’s Gunn ha un titolo sfacciato, che non lascia spazio a equivoci e che promette parecchio, The Longer The Beard The Harder The Sound. Promette e… bestia se mantiene!
I Gandhi’s Gunn, infatti, si confermano come una delle migliori band pesanti della scena italiana, capaci di sfoderare delle grandi cavalcate di rock metallico muscoloso, grezzo e molto coinvolgente. Già si intuivano le loro potenzialità dall’album di debutto, oltre che dalle varie esibizioni live durante le quali risultava chiaro che questi non sono tipi che si risparmiano per paura di inzupparsi di sudore.
In questo nuovo lavoro la band ripropone senz’altro il proprio caratteristico e vincente stile adrenalinico, la cui matrice consta di desert/stoner rock metallico misto a un hard blues rock grezzo, con richiami a un grunge poderoso da Soundgarden. Su questa matrice i Gandhi’s Gunn inseriscono elementi doom e post-metal/post-rock, che usano quasi al posto della psichedelia classica per creare talora atmosfere dilatate e per conferire un’aura sinistra, o per lo meno un po’ tormentata, alla carica di base del loro rock accattivante. I Gandhi’s Gunn sono quindi ancora belli pesanti e il loro nuovo disco è senz’altro in continuità con il debutto. Come in Thirtyeah, infatti, ritornano i possenti attacchi del basso pulsante di Massimo Perasso, aka Maso, e delle chitarre distorte di Francesco Raimondi, riff che sono rasoiate metal e che grondano denso fango di palude allo stesso tempo. E non si tira certo indietro Andrea Tabbì De Bernardi quando pesta sulla batteria per sostenere le cariche dei compari. Le schitarrate da guerra fanno il paio con la performance vocale di Giacomo Boeddu, senz’altro une delle più convincenti voci heavy rock in Italia.
Stoner metal d’impatto è ciò che apre i giochi con “Haywire”, anche se la band infila subito dentro delle parti dissonanti quasi post-metalliche come diversivo all’aggressione groove presente nel suo dna. Southern groove puro che torna nella seconda traccia, l’assolata e barbutissima “Under Siege”, e pure nella terza, “Breaking Balance”, che ti fa immaginare su una decapottabile lanciata ad alta velocità lungo una strada dritta nel deserto. Oltre ai riff pesantissimi, distorti e riverberati e al blues tradotto in metal (in stile Fu Manchu e Clutch), l’album nuovo vede l’adozione, da parte di Giacomo, di parti in cantato soft, come già visto nelle ben note tracce “Lee Van Cleef” e “Club Silencio” dell’esordio. Queste si abbinano a frangenti quasi acustici, dal sapore neo-folk o western, molto atmosferici e che creano senz’altro un efficace diversivo alla forza prorompente della macchina da riff dei Gandhi’s Gunn. Infatti, nella bella ballata “Flood”, la lunga e sobria introduzione acustica amplifica l’onda d’urto creata dall’attacco delle chitarre rombanti e pesantissime e dall’urlo di Giacomo. “Flood” poi finisce in una cacofonia ipnotica doom-drone che un po’ contrasta, per la sua cupezza ma non per la dilatazione dei suoni, con quello che viene dopo, ossia la dinamica “Red (The Colour Of God)”. “Red” è frenetica nel suo sviluppo, i riff sono sostenuti da percussioni veloci e sincopate, a metà, se possibile, tra funk e d-beat, però i suoni delle chitarre sono deformati e riverberati e quasi echeggiano, psichedelici. Troppo breve da tanto è bella! Poi però continua la carica di super groove nella potente “Rest Of The Sun” e nella successiva “Adrift”, in cui si apprezza lo stile di stoner metal bollente e contaminato dei ragazzi. Infatti “Adrift” di nuovo incorpora una dose misurata di dissonanze post-metal come nella iniziale “Haywire”, forse per differenziare il sound dalla traccia precedente, di chiara ispirazione “clutch-esca”. Visto che si parla di contaminazione, non può non colpire il lungo e affascinante jamming dal sapore etnico con basso, sitar e chitarra riverberata in sottofondo, che apre la “suite” conclusiva, “Hypothesis”. Questa traccia è forse la prima composizione dei Gandhi’s Gunn in cui, a mia memoria, viene ampiamente impiegato del vero e proprio space metal. Ma dal sitar allo space metal si passa attraverso l’entrata quasi “brutale” di una serie di riff tiratissimi e decisamente doom. Su questi si innesta il Giacomo, che in questa occasione diventa quasi ieratico. L’innesco graduale di dissonanze sperimentali e post-metal sul riff di base crea un magma sonoro che a un certo punto prende forma in un vortice di space metal talmente articolato da ricordarmi certi passaggi sentiti negli Oranssi Pazuzu.
Quindi, che dire, i Gandhi’s Gunn sono stra-barbuti.
Nel nuovo album hanno messo tanto del loro primo lavoro, segno che hanno definito e rifinito i pilastri del loro personale stile granitico e dinamico, la cui ossatura trae indubbiamente ispirazione da buona parte dalle grandi band della scena heavy stoner/doom, come Clutch, Corrosion Of Conformity, Fu Manchu, High On Fire, Melvins, Down, Orange Goblin, Monster Magnet… The Longer The Beard The Harder The Sound, dunque, ha parecchi elementi di continuità col primo lavoro, ed è pervaso da una carica incontenibile. Perciò contiene molti spunti che non possono non appassionare chi, ad esempio, diventa matto per i Red Fang. La mia impressione, comunque, è che nel nuovo disco la band osi forse di più, che esplori egregiamente territori sonori diversi, e forse più cupi, in modo più accentuato di prima. Ciò suggerisce come per il futuro ci siano da aspettarsi altre sorprese e dell’altra gran bella “roba” da questo quartetto.