GABRIEL SALOMAN
Gabriel Saloman è stato uno dei due Yellow Swans. Degli Yellow Swans sono conosciute la natura camaleontica e la rilevanza all’interno del noise americano di inizio Duemila. Il gruppo si è sciolto nel 2009 e il primo nome a balzare agli onori delle cronache è stato l’altro, quello di Pete Swanson, che ha incuriosito tutti con la sua svolta technoide. Saloman si è mosso in modo più discreto e lento, riapparendo nel 2012 con Adhere per la Miasmah di Erik Skodvin (Svarte Greiner, Deaf Center, B/B/S). Questo e tutti i suoi lavori successivi, compreso l’ultimo Movement Building Vol. 1 per Shelter Press, non sono autonomi, ma nascono per la danza (fra un po’ di righe ci sarà modo di leggere qualcosa sulla collaborazione continuativa tra Gabriel e la coreografa Vanessa Goodman). Questi dischi possiedono spesso la fisicità del drone e la sua capacità di trascinare via lentamente, ma non l’aggressività del rumore, piuttosto qualcosa di essenziale e sperimentale: occorre sentire, a questo proposito, l’uso del piano e delle percussioni in Adhere, singhiozzi spezzati in uno spazio enorme, che danno una forte idea di solitudine, non a caso l’album è dedicato ai carcerati, cioè a chi vive una forma di isolamento. Si potrebbe parlare addirittura di una specie di minimalismo classico, magari sentendo il più recente Soldier’s Requiem, ma sarebbe un tentativo quasi illecito di avvicinare l’americano ai suoi amici europei che lo aiutano nel suo percorso in solitaria (di mezzo non c’è solo Skodvin, c’è anche Nils Frahm al mastering).
Siamo di fronte a un sound artist molto intelligente, che ha risposto nel modo migliore e più consapevole possibile alle mie domande, esattamente come anni fa mi capitò con Eric Copeland dei Black Dice. Ho avuto davvero l’impressione, in entrambi i casi, di persone colte, di laureati a pieni voti, con un’idea molto precisa su ciò che stanno combinando, talmente chiara e potente che riescono a imporla anche a chi li deve poi recensire/intervistare, magari qualcuno ansioso di trovare nuove scene e nuovi movimenti di cui scrivere. Ritengo onestamente di aver imparato molto dal mio confronto con loro. Rimango però abbastanza dell’idea che in questi anni, in ambito “estremo” e “sperimentale”, a bocche chiuse e a stereo acceso, le vere cicatrici me le abbiano lasciate altri. Buona lettura.
“Il lavoro solista di Saloman esplora rumore e paesaggi sonori in quanto forma di resistenza e percorso di emancipazione da un ordine sociale autoritario” (fonte). Mi sento molto vicino a tutto questo. Ascolto ambient, drone e noise e per me è qualcosa di politico. E non ho bisogno di testi. Non riesco però sempre a spiegarmelo bene. Tu come lo spiegheresti? Dedichi i tuoi album ai carcerati, alla pace e alla libertà (l’ultimo tenta di farci sfuggire i limiti di un “corpo disciplinato”)…
Gabriel Saloman: Ci sono pochi parametri che so usare per decidere se un mio lavoro è riuscito o no, ma uno su cui faccio affidamento è: un’opera d’arte deve essere un esempio esperienziale di ciò che dichiara di essere. Se un lavoro parla di “liberazione”, dovrebbe esso stesso essere in qualche modo libero da restrizioni e strutture, e – cosa più importante – dovrebbe offrire un’esperienza di liberazione alle persone che ci avranno a che fare. Non dico che tutto quello che ho creato ottenga questo, ma è ciò a cui aspiro. Ambient, drone e noise abbracciano astrazione, sensazione e modi non razionali di conoscere. Anche se non supportano automaticamente processi politici radicali o progressisti, rifiutano quella forma limitata, irreggimentata e definita aziendalmente che qualcuno si aspetta la musica assuma, plasmando di conseguenza noi ascoltatori e artisti. La cornice ristretta che i media popolari adottano serve a disciplinarci come consumatori. Drone e noise rifiutano limiti, sono intrinsecamente indisciplinati e, se decidiamo di usarli come strumento, possiamo trovare delle vie di fuga da queste situazioni spiacevoli anche solo ascoltando e suonando in questa maniera. Ovviamente non mi trovo al di fuori del capitalismo o di altri sistemi che critico, ma mi sento in grado di creare spazi all’interno dei quali mi sento più autonomo, più libero.
So che può essere difficile per qualcuno vedere una relazione diretta tra il mio fare politico e la mia musica. Penso spesso a una band come i Tragedy o a un certo numero di band anarcho-punk e credo che loro usino la musica come contesto per le loro politiche. Non voglio denigrare il loro songwriting o il loro valore musicale, ma gruppi di questo tipo utilizzano uno schema piuttosto basilare per trasmettere il loro messaggio, perché si basano in gran parte sui testi. Col mio lavoro, ed era così anche con gli Yellow Swans, la politica è il contesto della musica, un modo di comprendere qualcosa dello spirito e dell’emozione che hanno dato forma a ciò che tu stai esperendo.
Che hai imparato dalle tue prime esperienze in band hardcore? Estetica, politica, etica, mentalità DIY…
Tutte queste cose di sicuro. Il punk in generale, e l’hardcore in particolare, facevano pochissime distinzioni tra sociale, culturale e politico. Essere un punk non era solo una questione di gusto musicale per la maggior parte delle persone, era un modo di vivere e agire. Questo è qualcosa che io e Pete (Swanson degli Yellow Swans) avevamo in comune e che determinava in gran parte come facevamo musica e come dovevamo gestirci. Credevamo intensamente all’autonomia come principio. Credevamo anche nell’aiuto reciproco come una pratica che guidasse molte scelte relative a con chi suonare, andare in tour, con chi pubblicare i dischi… Tuttora penso alla musica con lo schema mentale del punk più che con quello della musica elettronica, della nuova musica, del metal o qualsiasi altra cultura incroci. Ci sono una serie di generi e scene che informano in parte la mia musica, ma il punk è il fondamento. Anche a livello estetico… quando stavo discutendo con Erik della Miasmah l’artwork per Soldier’s Requiem, gli ho mandato un sacco di copertine dei Discharge dicendogli “così è come voglio che venga percepito”. Ero molto coinvolto nel punk e in altre forme di musica underground nei Novanta, ma mi sentivo intensamente frustrato dalla “forma rock band”. Verso la fine di quel decennio a San Francisco e a Oakland c’era una scena fantastica “neo-no-wave” (Total Shutdown, Erase Errata, Pink & Brown) giusto a fianco della scena radicale IDM/glitch (Kit Clayton, Kid 606, Blectum from Blechdom). Io volevo qualcosa che catturasse l’intensità e la “presenza” delle band punk con cui suonavo, ma che al contempo fosse radicale dal punto di vista strutturale e sonoro allo stesso modo della musica elettronica che veniva realizzata intorno a me. Non pensavo di poterlo fare a Oakland, quindi me ne sono andato a Portland, in parte per formare un gruppo con Pete.
Ecco. Hai iniziato a Portland, ti sei mosso a Oakland, adesso sei in Canada. Ho viaggiato a lungo in Italia per lavoro, ma non riesco ancora a capire come gli americani riescano a cambiare così facilmente la loro vita. Questo influenza la tua arte?
L’America è enorme e non è così culturalmente omogenea come potrebbe sembrare. Idem il Canada. Comprendo perfettamente chi sta in un posto o si sistema in una città o in una regione, ma non so se spostarsi sia così strano per gli artisti o per chiunque altro. Oggigiorno sembra quasi normale, anche se non tutti “migriamo” nelle stesse condizioni o per le stesse ragioni. Tutti i traslochi che ho fatto erano dovuti a un intersecarsi di motivi. San Francisco e Oakland erano diventate troppo care per me se volevo dedicarmi al mio mestiere d’artista, così sono andato a Portland per iniziare una nuova vita e dare il via a una band con Pete. Culturalmente, Portland mi sembrava troppo chiusa in se stessa e ho sentito il bisogno di una sfida, quindi sono tornato a Oakland dove potevo essere vicino alla mia famiglia. Però Oakland rimaneva cara e mi mancava la qualità della vita di Portland, così ho fatto marcia indietro. Mi sono trasferito a Vancouver per stare con la mia compagna, che è canadese, e per non finire in quel vicolo cieco che sembra essere la vita politica ed economica americana. Adesso sto pensando se andarmene di nuovo, a causa della brutale disparità economica di Vancouver. Ogni trasloco è una rottura e in qualche modo mi sento sempre uno sradicato. Allo stesso tempo, penso che sto inseguendo ogni volta il mio destino e che ci sia sempre qualcosa di divinatorio che guida il mio percorso. Non penso che questo modo di migrare sia salutare, e sono certo che molta gente preferirebbe connettersi più profondamente a un luogo, ma questo non sembra essere il nostro presente.
Che significa per te pubblicare dischi a tuo nome? Gli Yellow Swans hanno sempre giocato col loro stesso nome, invece adesso sei qui con noi senza trucco. Perché?
Ci sono ancora strati di “trucco” anche se sono meno espliciti che negli Yellow Swans e meno collegati al discorso del commercio e del “branding”. Pubblicare i dischi che ho pubblicato a mio nome è in parte un tentativo di integrazione col resto del mio lavoro. La gente che aveva familiarità con la mia musica era spesso completamente ignara di quanto facessi nel campo delle arti visive o della scrittura (o in qualità di curatore). Usare lo stesso moniker per tutto questo è un modo di chiedere alle persone di fare caso a come tutte le mie attività si influenzino reciprocamente.
Da quando hai iniziato la tua carriera solista, hai anche cominciato a collaborare con musicisti europei: Erik Skodvin e Nils Frahm. Non suonano nei tuoi dischi, ma hanno dato il loro contributo (artwork, pubblicazione, mastering). C’è qualcosa di nuovo per te nel modo in cui lavorano?
Penso che i musicisti europei siano molto meno ambivalenti rispetto ai nordamericani per quanto riguarda le altre forme d’arte. Sono di gran lunga più a loro agio con l’idea che la tua musica possa essere influenzata da – o anche creata per – una mostra, una performance teatrale o di danza contemporanea o ancora da un film (di cui potrebbe essere la colonna sonora). In Nord America i musicisti di solito adeguano il loro metodo di lavoro intorno a quello della rock band che va in tour (anche i dj), che è un modello in cui la musica è prima di tutto per chi ascolta dischi e per gli spettatori di un live. I musicisti che lavorano “nelle arti” tendono a operare al di fuori dei circuiti delle live performance. Non solo la loro musica non è creata per i bisogni di un’utenza che compra dischi, ma non è nemmeno pensata per essere poi ben tradotta dal vivo. Creare musica per la danza ti fa avere tutto un altro tipo di aspettative e questo (provenendo da un background “rock”) è completamente liberatorio. Per dirti la verità non so se in generale ci siano grosse differenze tra il lavorare con musicisti europei anziché con quelli americani, ma sembra che da voi ci siano più etichette (Infinite Gray Scale, Shelter Press…) che capiscono la sovrapposizione che ci può essere tra musica underground contemporanea e arte contemporanea. Vorrei dire una cosa in particolare su Nils Frahm e il lavoro che ha fatto col mastering di Adhere: ha capito completamente cosa stavo cercando di tirare fuori dal piano, dal suo mondo interiore di legno e risonanza. Non so se ci sia anche geografia culturale dietro a questo, ma non mi pare una coincidenza che lui viva nella stessa parte del mondo dove vive la maggioranza dei miei collaboratori.
Per cortesia, potresti raccontarmi come sei entrato in contatto col mondo della danza contemporanea? Io non conosco questa forma d’arte. Come possono coesistere drone e ballerini? Ho guardato i video di “Re-marks on Source Material”, ma la mia ignoranza e i miei limiti emergono (e questo può essere stimolante), nonostante io sia abituato al tipo di suoni che posso sentire nel tuo ultimo disco per Shelter press…
Devo avvisare le persone che si approcciano alle mie collaborazioni nell’ambito della danza attraverso video on line che non avranno mai l’esatta sensazione che si prova stando nella stessa stanza. I coreografi coi quali lavoro sono tutti interessati a influenzare e far muovere tutti i corpi, anche quelli di chi sta seduto a guardare lo spettacolo. Si parla di qualcosa di profondamente commovente e intenso dal punto di vista fisico e purtroppo non posso indicarti un video che davvero catturi con cura queste performance. Vale la pena di notare che la musica è spesso suonata ad alto volume – quasi come fosse dal vivo – e che questo aumenta ulteriormente la fisicità del tutto.
Il mio sodalizio con la danza è cominciato quando, solo per curiosità, sono andato a vedermi una serata con alcuni brevi pezzi. Un uomo nel pubblico mi ha riconosciuto, in quanto fan della mia musica. È saltato fuori che la sua ragazza, Vanessa Goodman, avrebbe performato quella sera: si trattava di un pezzo così pieno d’intensità e travolgente che ho immediatamente pensato di voler far musica per lei. Lei è stata la prima a commissionarmi un pezzo, e abbiamo poi collaborato numerose volte. Sono stato incredibilmente fortunato a essere in grado di collaborare con altri danzatori e coreografi così avventurosi, anche in campo musicale. La danza è nota per avere una tavolozza musicale molto limitata, ma non dovrebbe essere così e molta gente è affamata di musica più contemporanea e sfidante.
Gli Yellow Swans erano considerati degli eclettici. Anche tu tenti sempre nuove soluzioni nel tuo lavoro solista. In questo periodo abbiamo tonnellate di dischi ambient/drone e noise. Hai paura di essere solo un volto nella folla? O fai semplicemente quello che ti piace senza pensare a che succede su scale più ampie (scene, etichette, trend, revival…)?
Devo dare credito a Pete per il consiglio che mi ha dato quando stavo iniziando a lavorare su Adhere. Una cosa del tipo “non fare l’album che pensi che loro vogliano che tu faccia”. Mi sentivo un po’ bloccato e isolato prima di quell’album. Vancouver ha una scena locale seria e piena di talenti, ma io non trovavo musica che m’ispirasse. Per varie ragioni non molti artisti passano per Vancouver (se la paragoniamo a Montreal o anche a Seattle). Ero davvero poco stimolato dalla musica che sentivo cinque anni fa, anche quella degli amici. Mi sentivo senza speranza, non pensavo che quello che avevo da dire musicalmente potesse trovare un’audience. Realizzare un pezzo per la danza era un modo per aggirare questo. Non dovevo pensare a una performance live o a vendere dischi o a stare dentro un genere. Ad album pronto, ho avuto la fortuna di trovare Erik e la Miasmah e di ricevere un po’ di supporto per la musica che avevo fatto. Ora sono ancora molto insicuro riguardo a cosa sia contemporaneo e su ciò che quelli che fanno parte del gruppo dei miei simili stanno combinando. Sarebbe molto più facile se realizzassi musica spinta da battiti e basso. Penso di essere indietro rispetto a ciò che sta succedendo nella musica adesso e mi sta bene. Più mi allontano da ciò che è di tendenza, più significativo è il momento in cui la gente risponde al mio suono con emozione e passione.
Curiosità personale, infine, scusa. Qualche anno fa, i giornalisti europei erano molto interessati alle nuove band “noise” (lasciami semplificare) americane (Black Dice, Wolf Eyes, Yellow Swans…). È sempre stato impossibile capire se i vecchi progetti industrial e noise significassero qualcosa per la nuova generazione alla quale tu appartieni. Throbbing Gristle, Test Dept., Ramleh, SPK… questi nomi ti dicono qualcosa?
Ero assolutamente influenzato dalla musica industriale. Da teenager, molti dei miei amici ascoltavano una combinazione di industrial music ed heavy metal e io ero un po’ unico perché avevo gusti musicali un po’ più ampi ed eclettici. La prima volta che ho realizzato esistesse una cosa tipo “underground” è stata quando ho visto suonare i Ministry a un festival e mi sono chiesto dove vivessero i loro fan tatuati, coi piercing e le giacche di pelle quando non impiegavano il loro tempo a scagliare il mio piccolo corpo nel moshpit. Ho avuto la fortuna di avere un amico alle superiori che possedeva gusti particolarmente estremi ed esoterici in musica, che mi portava intorno a San Francisco in club goth-industrial e ascoltava Throbbing Gristle e Non a volumi assurdi. Aveva una borsa di plastica piena di ghiaia attaccata al muro della sua camera con le lettere “E.N.” scritte sopra. Così, quando ho iniziato a fare musica pensavo che stavo suonando industrial nonostante la maggior parte dei miei amici non fosse d’accordo. Solo scoprendo la musica noise giapponese grazie a un articolo su di un magazine mi chiarì che c’era un contesto per la mia musica. Ho passato gli anni da teenager pensando per davvero che sarei dovuto andare in Giappone per poter suonare la musica che suonavo e registravo a casa. Come ho detto prima, la gente che fa noise music e musica sperimentale spesso proviene da background diversi e ha diversi punti di riferimento. I membri dei Black Dice, prima, suonavano in gruppi indiepop anglofili e hardcore punk band. Ho incontrato molti “drone musicians” che erano passati per l’hardcore punk e la scena drum’n’bass dei Novanta. Non so se sia geografico o meno, ma penso che la mia generazione sia stata l’ultima a scoprire la musica in modo analogico e locale. L’era internet della musica è caratterizzata anche da un eclettismo superficiale (l’iTunes di chiunque è pieno di musica di qualsiasi genere) e allo stesso tempo mette le persone nella condizione di coltivare preferenze particolarmente esoteriche e chiuse. Quando dipendi di più dalle relazioni interpersonali per scoprire musica, i tuoi gusti sono tanto larghi quanto le tue amicizie e sei più facilmente segnato dalla musica che serve come ponte tra te e la gente che fa parte della tua vita di ogni giorno.