Frank Stanford, coltelli che cantano
«There’s a writer named Frank Stanford, who I really like. I’d like to see more from him.
He’s a poet, novelist and short story writer. He died in the Seventies»
(Tom Waits, da un’intervista del 2006)
Quando è Tom Waits a parlarti di un poeta, allora vuol dire che sei sulla strada giusta. Quando trovai il nome di Frank Stanford nell’intervista citata qui sopra, capii che sarei dovuto andare più a fondo. È attraverso l’interdisciplinarietà che le sorprese più belle arrivano. Dopotutto il Premio Nobel per la letteratura vinto da Bob Dylan nel 2016 ha dimostrato e rafforzato ulteriormente il legame tra due arti che hanno molto di più in comune di quanto si pensi. Il filologo e critico letterario Paul Zumthor, nel suo straordinario saggio “La presenza della voce”, ha illustrato in maniera molto più approfondita le origini orali e musicali della poesia. Quando lessi per la prima volta un poema di Frank Stanford, non potei che udire, da lontano ma molto distintamente, la litania oscura di Blind Willie Johnson, “Dark Was The Night, Cold Was The Ground”. Sapevo, senza ombra di dubbio, che quello era lo stesso luogo da cui Stanford proveniva.
«avevamo una brocca una chitarra e un secchio d’olio
qualcuno disse il lupo è dolore
ci sembrò di sentire Mose che suonava un piffero lontano
nel bosco
io suonavo un pettine con la carta dei biscotti Stage Plank
Baby Gauge piangeva cantò Ritorno alla polvere
io volevo cantare Il sangue ha firmato il mio nome ma
non mi lasciarono»
Se non fosse stato scrittore, Stanford avrebbe potuto forse essere una rock star del calibro di Elvis Presley, Tav Falco o Jeffrey Lee Pierce dei Gun Club, col quale condivideva lo stesso immaginario southern gothic e l’ammirazione per la cultura giapponese. Le poche foto disponibili che lo ritraggono non lasciano pensare proprio alla statura di un letterato. E invece Stanford lo era, ma con la sua tipica attitudine da country boy. Si racconta che durante una festa nella quale era presente pure Allen Ginsberg, per pura provocazione, tirò fuori un fucile e sparò sul soffitto, convinto che quel gesto avrebbe fatto allontanare gli “sfigati” presenti nella stanza. In effetti, se ne andarono. Una volta ammise addirittura che avrebbe preferito essere Muhammad Alì piuttosto che T. S. Eliot. Abbastanza comprensibile. Del resto, praticava pure le arti marziali. E con gli afroamericani non solo ci aveva vissuto, ma aveva anche assorbito il loro linguaggio.
Chi era davvero Frank Stanford? È proprio sulle sue origini che molti critici, amanti, colleghi o amici hanno avuto per anni non pochi dubbi. Almeno si sa di certo, come scrive nella sua magnifica introduzione Luca Dipierro, curatore e traduttore della prima antologia italiana del poeta (e parte del Madcap Collective, difatti qui il suo nome non è nuovo), che nasce nel 1948 col nome di Francis Gildart Smith in un istituto per madri non sposate a Richton, Mississippi. In seguito, lo adottano Dorothy Gilbert e Albert Franklin Stanford. Frank non scoprirà mai l’identità dei suoi veri genitori. Il padre adottivo è un ingegnere costruttore di argini, i “levees”, parola che comparirà spesso negli scritti di Frank, che proprio nei levees entra in contatto con la realtà degli operai neri che lavorano per conto di suo padre. Sono gli anni Cinquanta, ben prima di Martin Luther King, dei Freedom Riders, delle Pantere Nere. Il Ku Klux Klan brucia le sue croci. I linciaggi sono all’ordine del giorno. Il blues è ancora considerato “la musica del diavolo”. Quando gli chiederanno cos’aveva imparato dalla sua convivenza coi neri, la risposta di Stanford sarà lapidaria: “che i bianchi li trattavano di merda”. Il contrasto tra l’ambiente benestante della sua famiglia adottiva, tipicamente middle class, e quello selvaggio e contadino percorre tutta la sua opera. Per tutta la vita, Stanford cercherà di rievocare con la scrittura le visioni della sua infanzia mitica. Per certi versi, molte delle sue narrazioni fanno venire in mente “Le avventure di Hucklebbery Finn”, l’opera più famosa di Mark Twain, o più probabilmente la sua controparte postmoderna, il monumentale “Suttree” di Cormac McCarthy. Quello che rende unico Stanford è la sua posizione di intermediario tra questi due mondi: nei suoi poemi le sensibilità europee – figlie del Surrealismo e del Simbolismo francese – si sposano con la ruralità gotica del blues americano. Non a caso un critico l’ha definito un “Rimbaud ratto di palude”. Proprio come Rimbaud, già idolo e mentore di tanti artisti punk negli anni Settanta, è un outsider, anche in ambito accademico. Frequenta l’Università dell’Arkansas, ma non sostiene neppure un esame. Lavora come agrimensore, il che gli permette di vivere nelle stesse campagne dov’è cresciuto. Proprio come Rimbaud, si fa veggente, un veggente abitatore degli argini, dei levee camps, lungo il fiume Mississippi, in dimensioni parallele al Sogno Americano, mondi che significano terrore e minaccia per i white supremacists, mondi dove sopravvivono coloro che stanno, per dirla con Tom Waits, “on the wrong side of the road”. Freak, ladri, puttane, indiani, ciechi, fanatici di ogni tipo, giocatori d’azzardo, assassini, alcolizzati, albini, ipnotisti, praticanti voodoo, zingari. Tutti coloro che la Storia o il Progresso ha lasciato indietro, tutti coloro che per un motivo o l’altro non ce l’hanno fatta, ma che hanno ricevuto dal destino anche facoltà speciali, soprattutto per quanto concerne la sopravvivenza. Coloro che credono ancora nei sogni, nella chiaroveggenza, nelle arti magiche, nei simboli e i segni della wilderness attorno a loro. Non è tuttavia un universo ingenuamente fiabesco quello dipinto da Stanford. Il sangue scorre, ne scorre molto. Uomini e bestie vengono uccisi. E l’ombra della Morte allunga i suoi lunghi artigli inarrestabili ovunque.
È rilevante che la prima raccolta del poeta, pubblicata nel 1971, si chiami “The Singing Knives”. Sono coltelli che cantano questi poemi, dove il misticismo e la violenza convivono, nella tradizione dei migliori bluesmen. Non si esagererebbe a dire che l’opera di Stanford è tanto importante per la poesia quanto l’Anthology Of American Folk Music lo è per la musica. E i riferimenti alla musica non mancano nei suoi scritti. Sempre Dipierro scrive che le sue poesie «sono popolate di neri, figure in bilico tra la dannazione della miseria e la bellezza, con nomi da eroi del blues come Baby Gauge, Charlie B. Lemon, Jimbo Reynolds». Versi di gospel molto popolari vengono invocati o addirittura trascritti. Un poema è persino chiamato “Blue Yodel”, proprio come il classico country di Jimmy Rodgers. Alcuni dei personaggi intonano spirituals, suonano chitarre, e compaiono jug bands. Fa la sua apparizione pure Take Out Some Insurance di Jimmy Reed. Stanford stesso è un grande collezionista di vinili, principalmente di free jazz. È chiaro il motivo per cui diventerà, nel tempo, uno dei poeti più amati dai musicisti. Lucinda Williams, che lo ha frequentato, gli ha dedicato una canzone. “The Light The Dead See” dei Soulsavers porta il nome di una delle sue poesie. Mark Linkous era anche un suo fan, tanto da aver cantato alcuni suoi versi in Saint Mary. D. C. Berman dei Silver Jews ha letto uno dei suoi poemi, tratto dall’ultima antologia uscita negli States nel 2015, pubblicata a sua volta dalla casa editrice di Jack White degli White Stripes. Coincidenza macabra, ahimè, sia Linkous che Berman condividono col poeta la sua fine tragica: Stanford muore suicida nel 1978, a ventinove anni. La prematura dipartita non ha fatto che accrescere la sua fama. Chi muore giovane è caro agli dèi, si dice. La Morte, che Frank aveva cantato e sedotto per anni, gli ha donato una luce. Quella luce che i morti vedono, e che noi vediamo nelle loro opere, che sono come geroglifici da decifrare, segni di antichi movimenti tettonici, eruzioni vulcaniche che squarciano la terra per spalancare abissi e passaggi verso un Altrove ancora da abitare. «Essi muoiono ma vivono», scriveva. E ancora: «Morte è una bella parola./ Spesso ritorna/ Quando fa più/ Buio fuori e caldo,/ Come un pescatore ubriaco,/ Senza dolore, sesso,/ O malinconia./ Giovane come sono, io/ Faccio luce per questa barca.»