FRANCISCO LÓPEZ

FRANCISCO LÓPEZ

Sono una persona responsabile.

Queste le parole in un italiano nemmeno così stentato, ma forse un po’ troppo ingenuo, di Francisco López al momento di presentare la sua esibizione al pubblico del Tempo Reale, ma chi lo conosce sa che ci si può fidare. “Virtual GeoSonoGraphy” è l’immersione site specific ideata appositamente per questa settima edizione del festival fiorentino, che quest’anno aveva un leit-motiv quasi ritagliato intorno a lui: le geografie del suono. “Virtual GeoSonoGraphy” è pensata per un sistema di diffusione quadrifonica per pubblico rigorosamente bendato: da una parte, quindi, abbiamo avuto una ricollocazione di elementi sonori nello spazio (pratica non dissimile, quindi, dai tentativi di Giancarlo Toniutti di ricreare complessi diorami elettroacustici), dall’altra la volontà di proiettare l’ascoltatore in un territorio completamente vuoto, e quindi libero, nel quale potesse suggestionarsi e indagare su se stesso. Xenakis (ritroveremo questo nome più avanti anche nell’intervista) suggeriva a tal proposito come la musica altro non fosse che un modo per analizzarsi e accrescersi, ma forse è meglio concludere questa digressione para-ontologica ancor prima che cominci, seppure questo discorso stia molto a cuore anche allo spagnolo. Le geografie (astratte, senza confini) del suono secondo López? Un vuoto diatopico modellato attraverso i sensi.

Prima dell’esibizione è stato possibile fare qualche domanda a Francisco. Per questo dobbiamo ringraziare infinitamente persone disponibili come Sara Bertolozzi di Tempo Reale, che si è fatta in quattro per noi, anche se siamo solo una webzine. Pensare di poter compendiare in una mezzoretta scarsa più di trent’anni di carriera è ridicolo, è però stato un momento nel quale abbiamo potuto approfondire e scoprire tanti aspetti che tuttora sfuggono di una personalità spesso ancora considerata “misteriosa”.

We really do need a structure, so we can see we are nowhere

John Cage

Sei al Tempo Reale, che quest’anno ha come argomento la geografia del suono, un rimando quasi al world soundscape project di Raymond Murray Schafer. Il tuo rapporto con questi temi?

Francisco López: Allora, io non sono davvero interessato alla rappresentazione della realtà. Penso che molto del lavoro di Schafer nel campo della registrazione di suoni naturali e ambienti sonori, incluso il suo discorso teorico, sia orientato fondamentalmente alla rappresentazione della realtà. Io invece non ho mai fatto registrazioni di suoni per rappresentare la realtà. Per suono registrato io intendo completamente un’altra cosa, per me è un altro mondo.

Penso subito al lungo excursus tentato da Sub Rosa con le sue antologie dedicate alla musica elettronica e al noise, nelle quali anche tu sei stato inserito. In tal senso si è parlato, ma si parla tutt’ora, di musica elettronica e noise quasi a volerne rimarcare la differenza. Esiste per te un solco realmente tangibile tra questi due approcci?

Non veramente, oggi. Il passato è stato un’epoca dove la differenziazione era più rimarcata. Oggi invece penso ci sia una combinazione di molte maniere diverse ed è più difficile fare una differenziazione chiara di questi generi. Viviamo in un tempo diverso, completamente un altro tempo. È davvero molto difficile confrontare la musica di molti artisti di oggi con queste “etichette”, ma ne sono contento.

SONM Archives. In quali ambiti è nato? Propositi futuri?

Si tratta di un archivio da parte di non-collezionisti. Io non sono collezionista di registrazioni, ma ho fatto un interscambio con altri artisti ed ecco il risultato del passarsi materiale direttamente fra noi. L’idea era stata quella di creare un archivio che fosse aperto al pubblico: non solo, fisicamente, in Spagna, ma anche on line per la consultazione di informazioni e per l’ascolto di musica. L’intenzione è ovviamente quella di crescere, ma in modo naturale con altri interscambi e con il contributo di altri artisti interessati ad essere accolti e prodotti dall’archivio, con l’intento anche di preservare i formati fisici.
Qualcosa come dieci anni fa si pensava che nel giro di poco i cd non sarebbero più esistiti ma si sbagliavano, come per i vinili anche se in questo caso si tratta di un revival, e magari tra qualche anno ci sarà un revival dei cd, non lo so. In ogni caso ci sono ancora formati fisici e uno dei propositi è quello di preservarli, ma ancora più importante è promuovere la musica e una delle possibilità che offriamo è quella di fare in modo che il maggior numero di artisti possa prenderne parte. Il nostro archivio è un’espressione della situazione sociale e culturale.

Cosa ne pensi allora, parlando di questo voler mantenere la musica “fisica”, delle possibilità offerte dalla diffusione digitale della musica via web?

Questa è la seconda volta nella storia che succede, non la prima. La prima volta che accadde fu negli Anni Trenta per via della crisi economica dei tardi Anni Venti, che mandò in bancarotta molte industrie discografiche. Da lì ci fu una gran diffusione del mezzo radio e gran parte delle persone ascoltarono musica fino agli anni del Secondo Dopoguerra proprio su questo mezzo. Questo è l’equivalente dell’odierno streaming “from the clouds”. Quindi l’immaterializzazione della musica non è una conseguenza del digitale, è soltanto una nuova versione di quello che è già successo in passato. In altre parole il punto è: il grande cambiamento nella musica e nella relazione tra essa e l’ascoltatore sta nelle conseguenze dei fattori, non è un problema di analogico/digitale.

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Penso sia significativo in particolare uno degli ultimi lasciti del SONM: No Bullshit: A Sonic Tribute To Zbigniew Karkowski, vuoi parlarcene? Eravate legati senz’altro da più che qualche “collaborazione”, immagino.

Ho voluto realizzare un omaggio a Zbigniew che potesse coinvolgere anche altri suoi amici. Tutti non abbiamo voluto fare altro che delle piccole tracce usando o il materiale sonoro di Zbigniew o quello che rimaneva di precedenti collaborazioni. L’importante è stato creare un lavoro che riflettesse i suoi reali intenti musicali ed è stato bellissimo che così tanti artisti, una settantina, vi abbiano preso parte.
Di recente c’è stata poi una piccola esposizione nel nostro archivio sonoro in Spagna dedicata a lui e adesso infatti volerò in Giappone per discutere con la compagna di Zbigniew, Atsuko Nojiri, per trovare il modo di trasferire al SONM il suo intero archivio, per preservarlo e curarlo.

Colgo la palla al balzo per quest’altra domanda: c’è stato un disco in particolare nel quale comparivate entrambi. Era quello che conteneva tutta una serie di remix della composizione originale “Persepolis” di Iannis Xenakis. Com’è stato confrontarsi con la sua figura?

Come Zbigniew, anche io sono un grande ammiratore di Xenakis, della sua musica e anche delle sue idee. Ha introdotto nella maniera più interessante possibile il problema del caso e dell’aleatorietà o della stocastica. A mio avviso ha detto molte più cose interessanti rispetto ad esempio a John Cage.
I risultati che è riuscito a ottenere con le sue musiche sono stati straordinari: l’intensità, il dramma, la ricchezza d’ascolto, e “Persepolis” ha tutto questo. La sua aura è davvero densa e poderosa. Furono Zbigniew e Naut Humon, in collaborazione con la Asphodel di San Francisco, a propormi l’idea di fare questo remix. C’è da dire che il remix nell’ambito di queste sonorità è davvero qualcosa di diverso da quello nella musica popolare, di tutti i giorni, e infatti i risultati ottenuti dai diversi artisti presenti in quella compilation furono completamente differenti dalla composizione originale. Per quanto mi riguarda, il mio obbiettivo nel rielaborare quei suoni è stato di fare un lavoro “semplice” dato il materiale estremamente complesso di partenza.

Preferisci che i tuoi live vengano chiamati “immersioni”. I motivi in ordine di lessico sembrano piuttosto chiari, ma come riesci a far arrivare il tuo pubblico in questo stato di immersione? Nello specifico mi riferisco a questo: quanto le capacità di un musicista sono importanti nella gestione dell’acustica? Pensi in tal senso che in questo ambito la figura del musicista si stia spostando dal mondo della musica e delle sue regole accademiche (composizione, strumenti…) verso l’ambito ben più enorme che riguarda l’universo scientifico del suono?

È una questione eterna nella musica, ma nella fattispecie nella musica elettronica e sperimentale di oggi penso ci sia un interesse maggiore in quella che è la ricerca appunto dell’immersione. Con questo mi riferisco all’aspetto concettuale, che non è più legato a una sorta di poetica ma a tutte le connessioni che un ascolto può avere. Per esempio, dagli anni Sessanta e Settanta non c’era spesso l’idea di comunicare un messaggio extra-musicale o una storia, discorso che interesserebbe in maniera forse un po’ diversa anche tutte le culture musicali tradizionali e popolari orientali e occidentali, mentre oggi molti artisti che sono direttamente interessati al suono, nell’interiore del suono, e che lo progettano, fanno un tipo di ricerca che ha più a che vedere sul modo di viverlo. Questo si traduce in un’esplosione di tutte le possibilità che il suono può avere, con il risultato di avere qualcosa che non si ascolta per ascoltare ma che si ascolta per accedere a tutte le possibilità che il suono può offrire affinché ognuno abbia accesso ad un’interpretazione individuale e libera. È una posizione filosofica e artistica diversa, non c’è l’intento di esplicare un’idea o mandare un messaggio in maniera più o meno formale o pragmatica, ma di offrire, grazie alle maggiori libertà di cui godiamo oggigiorno con l’avanzare dell’evoluzione musicale, un territorio vuoto nel quale l’ascoltatore sia in grado di “muoversi” e vivere situazioni.

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In Spagna avete realtà come lo Störung Festival. Dal canto nostro abbiamo Flussi, o il recente 90db e appunto il festival Tempo Reale. Quanto giudichi importante l’apporto di queste manifestazioni nell’ambito complesso delle arti multimediali?

In effetti c’è un piccolo paradosso: nonostante siamo in un periodo di cosiddetta recessione, nascono spontaneamente molti festival di questo tipo, cosa che decenni fa non accadeva nonostante ai tempi ci fossero magari più possibilità economiche. Sono molto importanti perché sono stati e sono il modo migliore con il quale diffondere questa cultura del suono ed è una conseguenza di persone sempre più giovani che si interessano a questo mondo. Soprattutto perché si tratta di manifestazione spesso indipendenti, minimamente se non per niente istituzionalizzate, che nascono spontaneamente da situazioni sociali odierne.