Francesco Guerri: acute coincidenze
Su Mimmi Non Si Spara, uscito di recente per RareNoise Records, è un ottimo disco per violoncello poliglotta, capace di scapicollarsi nell’improvvisazione come di abbandonarsi a derive minimaliste, di farsi martello noise o di suonare classico e contemporaneo. Aiutato da un’ispirazione potente, da un talento libero e da uno strumento che è stato definito il più vicino alla voce umana, Francesco Guerri, classe 1977, da Cesena, ha un curriculum notevole; ha suonato infatti, tra gli altri, con Chris Corsano, Edoardo Marraffa, William Parker, Butch Morris e collabora con Chiara Guidi della Societas Raffaello Sanzio.
Ho trovato molto interessante (lavoro con i bambini, sono maestro elementare) la spiegazione del titolo bizzarro di questo tuo disco: la racconteresti ai nostri lettori?
Francesco Guerri: “Su Mimmi non si spara!”. È la voce di Alice (la compagna di Guerri, ndr) che intima ad Enrico – il mio figlio più grande – di non sparare con una pistola ad acqua sul fratellino di 6 mesi. Ognuno lo interpreterà un po’ come vuole ed è giusto così. A renderlo speciale per me però è il fatto che queste parole di Alice raccontino quella dinamica fra bambini, in cui un gesto di violenza è allo stesso tempo un gesto d’amore. Questa polarità mi affascina e la sento anche nella mia musica, che è sempre e comunque un gesto d’amore ma che non per forza è ricerca di bellezza e perfezione, anzi è spesso violenta e sgarbata e sa di carne cruda.
Sei impegnato, oltre che come violoncellista, come educatore con ragazzi con disturbi mentali. Ci racconti come questa esperienza influisce, se lo fa, sulla tua musica, o come il tuo essere musicista influisce su questa esperienza?
Lavoro ormai da quasi 20 anni come educatore nel campo della psicopatologia dell’età evolutiva, da 10 (part-time) sono uno dei due educatori del servizio di urgenza dell’ospedale Maggiore di Bologna, che accoglie adolescenti in una condizione di sofferenza “in acuto”. Parliamo, tanto per capirci, di tentato suicidio, gravi scompensi, ritiro sociale. È molto difficile rendere in poche righe la complessità e la ricchezza di questa esperienza. Quando parlo del mio lavoro di educatore solitamente i miei interlocutori ne sono spaventati, ma in realtà non è cosi, ci divertiamo tantissimo. Ci si sente spesso come in un film di Tim Burton, in cui dramma e demenziale si mescolano agli elementi rituali propri dell’adolescenza.
Il linguaggio musicale in adolescenza è uno strumento di lavoro potentissimo. Per me il lavoro con gli adolescenti è un allenamento quotidiano, mi ricorda che la musica non è solo performance tecnica ed esercizio di bellezza, ma nasce dallo stare insieme nell’interazione fra chi produce e chi ascolta. Ha a che fare con il corpo con gli odori, i sapori, è qualcosa di fisico. A volte riesce a commuovermi di più un ragazzino che non sa suonare rispetto a un musicista navigato: c’è spesso più emozione in quello sforzo, in quella fatica rispetto ad un’esibizione perfetta magari provata per anni.
Mi racconti dei tuoi incontri con Tristan Honsinger, Carla Bozulich, Chiara Guidi e Nicola Guazzaloca?
Ho incontrato Tristan a un seminario a cui ho partecipato nel 2002. All’epoca avevo già incominciato a improvvisare, ma lo facevo ispirandomi soprattutto alle esperienze di teatro fatte negli anni precedenti, non conoscevo il jazz né tantomeno musicisti che improvvisassero. Avevo una fame incredibile di incontrare qualcuno con cui confrontarmi, altri musicisti, un maestro che mi togliesse dal pantano in cui mi sentivo. Tristan non è certo stato il maestro che speravo di incontrare, ma è stato sicuramente la chiave di tutto ciò che è successo dopo. Suonare con Tristan, vederlo suonare o anche solo pranzarci insieme, è stato un pozzo di ricchezza dal quale attingere.
Ho invece incontrato Carla quasi per caso, le serviva un violoncellista all’ultimo minuto per alcune date del suo tour di debutto in Europa con Evangelista e qualcuno le deve aver fatto il mio nome. Quei quattro o cinque concerti sono stati disastrosi, per quanto mi riguarda, non avevo né la strumentazione adatta per suonare in palchi così grossi né le competenze… un vero suicidio. Però fortunatamente qualcosa era successo perché in seguito abbiamo continuato a suonare insieme sia con Evangelista che in duo.
Chiara Guidi per me è stato un sogno che si è avverato. Ho incontrato la Societas da relativamente giovane, avevo vent’anni e ho avuto la fortuna di vedere Amleto e poi dopo poco Giulio Cesare. Per me sono state visioni fondamentali. Mi ricordo che ancora frequentavo il conservatorio e la mia classe di violoncello affacciava proprio sull’ingresso del teatro Comandini, sede della Societas. Guardavo quell’ingresso cercando di immaginarmi come fare ad entrarci e provavo un’enorme invidia per tutti quelli che vedevo varcare quella soglia. Una decina d’anni dopo, nel 2012, quando ormai avevo ripreso con fatica il mio percorso di ricerca sul violoncello, Chiara, dopo un mio concerto in solo ad Area Sismica, mi ha chiesto di collaborare con lei e mi ha invitato al festival Mantica che organizzava al teatro Comandini. Da allora abbiamo continuato a lavorare ininterrottamente insieme, sia nella produzione di alcuni spettacoli ma anche, e soprattutto, in un esercizio regolare di prove e incontri casalinghi.
Nicola Guazzaloca è un carissimo amico e uno di quei musicisti con cui sento una particolare affinità. Ci siamo conosciuti ad uno dei seminari di Tristan e abbiamo iniziato a suonare in duo soprattutto fra il 2008 e 2009. In quegli anni abbiamo fatto vari concerti, sempre di improvvisazione, fra cui anche un breve tour in Russia. In quell’occasione abbiamo battezzato il nostro progetto “Nestor Machno”.
Il tuo primo ricordo legato alla musica? La tua formazione? Come sei passato dalla musica classica a tutto il resto? Come vedi la comunicazione tra questi due (ammesso che siano solo due, poi) mondi?
Il primo ricordo musicale è sicuramente mia nonna che fischietta un qualche valzer di liscio romagnolo. La mia formazione, come quella di quasi tutti i violoncellisti, è classica. A 9 anni la scelta del violoncello è stata una pura coincidenza, le classi di violino e piano (gli strumenti che avevo chiesto) erano infatti già al completo. Credo che la mia più grande fortuna siano stati i grossi limiti che ho sempre avuto nella lettura a prima vista e in generale nella lettura. Ho sempre sbagliato tantissimo e questo mi ha reso la vita difficilissima in quel mondo in cui l’imperfezione e l’errore non sono in alcun modo tollerati.
Il primo atto di vera ribellione però arriva al nono anno: dovevo scegliere il concerto per violoncello e orchestra da portare al diploma e io mi ero innamorato del Primo Concerto in Mi min di Shostakovich. Il mio insegnante non l’aveva in repertorio e voleva che ne scegliessi un’altro, uno dei classici tre o quattro che tutti portano. Alla fine ho deciso di portare ugualmente Shostakovich studiandolo grossomodo da solo. Dopo il diploma ho smesso di suonare per quasi due anni. Mi ero ricavato uno studio in garage e mi ero messo a costruire strumenti con lamiere, amplificatori, giradischi e vari meccanismi. Strumenti che suonavano da soli: erano anni, quelli, in cui rifiutavo la tecnica. Solo a quel punto, dopo aver azzerato tutto, ho sentito nuovamente voglia di riprendere il violoncello, è stato il secondo vero inizio. Rispetto al repertorio, continuo a suonare con regolarità anche i vecchi spartiti e a volte ne aggiungo di nuovi, ma per ora non sento la necessita né il desiderio di suonarli in pubblico. Questo per dire che non credo di aver tagliato i ponti con la classica, credo altresì di aver maturato un punto di vista diverso su di essa, su cosa significhi per me “interpretare”.
Violoncellisti preferiti? Per parte mia, se ti dovessi fare tre nomi, direi Reijseger, Tomeka Reid e Tom Cora.
I miei punti di riferimento da sempre sono, oltre a Tom Cora che tu giustamente citi, Tristan Honsinger, Pierre Fournier, Jacqueline du Pré e ovviamente, in cima a tutti, Mstislav Rostropovich.
Il musicista è un radar che capta frequenze che sono nell’aria, come credono in tanti (ed è questo un approccio che mi trova in generale abbastanza d’accordo) oppure nella composizione senti che c’è una predominanza della tua persona, della tua volontà? La musica la si scrive, o è lei a scriverti? E, tra improvvisazione e composizione, come ti muovi in generale e come hai fatto nello specifico per questo disco?
Parto dalla fine della tua domanda. Questo disco in particolare è quasi interamente scritto, i brani non scritti sono però fortemente strutturati. La scrittura è un vincolo che ho sentito necessario per liberarmi dai luoghi comuni dell’improvvisazione in cui sentivo spesso di cadere e per dare maggior spazio e respiro all’interpretazione, che è l’aspetto che come ho già detto mi interessa maggiormente.
Mi piace e sento come fondamentale improvvisare durante il processo creativo, mi piace a volte farlo con gli amici e spesso mi capita di eseguire dei brani improvvisati alla fine di un concerto, ma in questo caso, per esempio, l’improvvisazione arriva alla fine di un lungo flusso emotivo e acquista a diritto un ruolo liberatorio.
Il dialogo fra improvvisazione, scrittura e interpretazione credo si basi per me proprio su una continua lotta tra il desiderio di liberarmi e la forma che man mano si costruisce. Quindi sì, le antenne dritte certamente ce le ho, ma allo stesso tempo mi piace pensare di essere io a decidere, a filtrare e a restituire tutto secondo un ordine che non sia prettamente estetico.
Se dovessi descrivere la musica contenuta in Mimmi cosa diresti?
Ci provo senza successo da parecchio. Non so, vorrei poter dire che sono canzoni.
Progetti per il prossimo futuro.
Sicuramente cercare di portare il più possibile in giro questo disco, continuare a scrivere e soprattutto scrivere per due progetti in particolare: il duo Con Fabrizio Puglisi (piano) e il duo con Andrea Grillini (batteria).
5 dischi da salvare per la proverbiale isola deserta.
Sonic Youth – Dirty
II Primo Concerto per violoncello e orchestra di Shostakovich, Philadelphia Orchestra, Ormandy / Yo-Yo Ma – Decca.
Massive Attack – Mezzanine
Steve Reich – Music for 18 Musicians
Carla Bozulich – The Red Headed Stranger
5 concerti della vita.
Rostropovich a Ravenna quando avevo nove anni che esegue il concerto di Dvorak.
Conduction di Domenico Caliri all’aula absidale di Santa Caterina a Bologna al termine di un laboratorio, con solo finale di Edoardo Marraffa, a fine anni ‘90.
Tristan Honsinger e Fabrizio Puglisi per Crossroads a Faenza al Museo Carlo Zauli nel 2004.
Fred Frith in solo al festival Meteo nel 2009.
Stefano Scodanibbio ad Area Sismica poco prima della sua scomparsa.
3 collaborazioni future possibili ed impossibili.
Possibili: Luca Venitucci, Cristiano Calcagnile.
Impossibili: gli archi della London Symphony Orchestra.
Una musica, per essere interessante alle tue orecchie, come dev’essere?
Ho sempre temuto questo aggettivo, “interessante”, ho sempre pensato che, quando qualcuno lo utilizza, in sostanza significa che la cosa a cui ha assistito non gli è piaciuta. A me emozionano piuttosto tutti gli aspetti legati alla performance e alla fisicità del gesto. La danza del musicista sul palco. Non sono particolarmente attratto invece da tutta quella musica molto cervellotica che si suona con gli occhi incollati agli spartiti.