FRANCESCO DIODATI YELLOW SQUEEDS, Never The Same
Segnali morse, un ritmo spezzato eppure travolgente, geometrie sbilenche ed esattissime e poi frasi ripide a rincorrersi lungo una struttura obliqua e perfettamente funzionale: inizia benissimo Never The Same, il secondo album del quintetto del chitarrista Francesco Diodati Yellow Squeeds, con Francesco Lento alla tromba (lo abbiamo già ascoltato nel nuovo disco di Federica Michisanti), Enrico Zanisi a piano, Fender Rhodes e synth, Glauco Benedetti (tuba, trombone a valvole, flauto) ed Enrico Morello alla batteria. Nevrosi urbane tra Steve Coleman e Tim Berne che poi si placano aprendo sipari su altrove cinematografici (“Here And There”). La tuba a fungere da basso che sorregge le impalcature di un cantiere poliritmico (l’inizio di sorprendente di “Cities”, che poi va un po’ fuori fuoco), oppure una matematica esatta e allo stesso tempo tutta personale (“Irrational Numbers”) che ricorda certe atmosfere PI Recordings (vengono in mente i dischi di Matt Mitchell, ad esempio) senza però riuscire ad averne lo stesso impatto. Con “River” la temperatura scende, il mood si fa raccolto, vago: un dialogo tra il pianoforte (ascoltare Blend Pages di Zanisi, uscito l’anno scorso), la chitarra e la tromba a lambire territori quasi pop, tra ispirazione e maniera. “Simple Lights” si schiude quasi controvoglia, per poi aprirsi in una struttura che potrebbe far pensare a certe cose di Vijay Iyer oppure ai Ronin di Nick Bartsch, però molto meno ossessivi, anche se il finale, con Benedetti e Lento sugli scudi, vira su sponde che potremmo sommariamente definire jazz-rock, con un’enfasi che non convince a pieno. Molto interessante il breve frammento per sola chitarra acustica di “Blue Dreams”, enigmatica e allusiva (uno sketch rimasto fuori da un disco di Nels Cline?), sospesa tra lirismo ed equilibrismo “Entanglement”, che dopo un inizio interlocutorio cattura l’attenzione quando si incattivisce, meno quando si dilunga. Quasi una ballad psichedelica la title-track fino a quando poi il ritmo non si fa più serrato, con un labirinto dove fiorisce un synth che stranisce il pezzo dandogli un curioso sapore tra fusion (Weather Report?) e out-pop. Si chiude con gli ottantadue secondi di “Expanded / Straight No Chaser”, dove il celeberrimo tema di Thelonious viene messo in coda a scaramucce virtuosistiche, suonando a dire il vero più come un pezzo di bravura che altro. Un album suonato da musicisti talentuosi, che vive di bei lampi, ma discontinui.