FORMA

foto di Augustin Doublet

Domani i Forma saranno a Milano con Steve Hauschildt. Organizzano gli amici di Plunge, come sempre coraggiosi, ma la serata – toccando ferro – dovrebbe essere un successo. Posso anche ritenerli troppo esangui, ma da appassionato di certe musiche, trovo fondamentale che qualcuno – portandomeli dal vivo – mi dia la possibilità di ri-credermi (un concetto apparentemente incomprensibile per una parte del pubblico, perennemente bisognoso di essere confortato), specie se sono artisti di cui si parla adesso e che documentano chiaramente una tendenza che prosegue ormai da anni. I tre americani sono in viaggio e ho approfittato della loro gentilezza per via telematica: giusto poche domande per togliermi qualche curiosità e farne venire altre a qualche milanese…

Abbiamo intervistato Jason Amm e Robert Fantinatto un paio d’anni fa. Avevano girato un documentario sul ritorno del sintetizzatore modulare: “I dream of Wires”. Gli Eurorack (quelli usati dai Forma, ndr) e John Elliott (il primo a credere in loro con Spectrum Spools, ndr) sono centrali in questo documentario. Lo avete visto? Sognate cavi? Ho un amico che suona techno con equipaggiamento analogico e dice sempre che ha incubi coi cavi.

John Also Bennett: Non l’ho visto, ma abbiamo decisamente un mucchio di cavi. Cerco di non pensarci troppo.

Mark Dwinell: Sì, è un gran documento sui migliori sintesisti del mondo. Personalmente non ho incubi con cavi!

George Bennett: Ho incubi coi cavi, specie quando sono sveglio.

In una recente intervista per AdHoc uno di voi ha parlato della bellezza della matematica. La musica dei Kraftwerk mi dà esattamente questa sensazione: la bellezza della matematica (e della geometria). Negli ultimi anni i musicisti hanno riscoperto compositori minimalisti, compositori d’avanguardia, Silver Apples, Cluster, Harmonia, Neu!, Can, Tangerine Dream, Ash Ra Tempel… ma nessuno di loro nomina più i Kraftwerk, il che suona strano alle mie orecchie. Che rapporto avete con questa band?

John Also Bennett: I Kraftwerk sono una cosa importante per noi. Ho pianto quando non sono riuscito a procurarmi i biglietti per il loro concerto a New York. Computer World, Radioactivity e Autobahn sono sconvolgenti e ancora adesso sono in risonanza con noi.

Mark Dwinell: Il mio rapporto coi Kraftwerk risale alle origini di tutto per me. Un amico collezionista di dischi mi preparò una cassetta di Kraftwerk 2 nei primi anni Novanta e da quella volta sono sempre stati d’ispirazione.

George Bennett: L’influenza dei Kraftwerk su di me è difficile da stimare, e non si tratta solo del loro sound. Mi sento legato anche al loro iniziale approccio improvvisativo, al loro minimalismo, alla loro estetica visiva, al loro modo di evolversi costantemente, al modo unico in cui hanno risposto al clima culturale e politico del loro tempo…

La parola “forma” è spesso associata alla matematica. La musica per certi versi è matematica. L’equipaggiamento elettronico probabilmente è matematico. Ho letto che avete un approccio improvvisativo, anche live. Che cosa intendete?

John Also Bennett: Improvvisiamo in vari modi suonando assieme. In studio è così che scriviamo la nostra musica, plasmiamo improvvisazioni per farle diventare “canzoni”. A volte ci sono o una struttura pre-esistente o alcuni limiti all’interno dei quali però improvvisiamo.

Mark Dwinell: I nostri album in studio sono totalmente improvvisati, creazioni in studio, mentre nelle nostre performance live ricreiamo queste composizioni e le presentiamo al pubblico. E certo conserviamo elementi d’improvvisazione nel nostro live set, ci dà flessibilità e la possibilità di giocare tra noi e col pubblico.

Probabilmente questa è la domanda più ovvia al mondo, ma vorrei sapere perché avete deciso di includere strumenti come flauto e piano nel vostro ultimo album.

John Also Bennett: Per noi è stato naturale, siamo tutti musicisti che hanno studiato strumenti diversi dai sintetizzatori. Si trattava anche di qualcosa che non avevamo mai fatto prima, così ci siamo spinti in nuovi territori per la band piuttosto che insistere con le stesse cose di sempre.

Mark Dwinell: Abbiamo tutti studiato musica, quindi per quest’album era ok per noi tornare anche a strumenti acustici per aggiungere una nuova dimensione al nostro sound, per tornare indietro e vedere se c’erano altre strade per proseguire in avanti.

George Bennett: Come batterista, non mi sento soddisfatto se devo limitarmi con dei sequencer. Le percussioni suonate manualmente sono più fluide e le vedo come un interessante contrappunto a sequenze ritmiche basate su di una griglia. Non rinuncio, specie dal vivo, al suono e alle sensazioni che danno i cimbali acustici.

Come mai avete chiesto a Robert Beatty di disegnare la copertina di Physicalists? Lo conosco per via di Three Legged Race, Oneohtrix Point Never ed Hair Police, ma non posso dire di comprendere il suo lavoro grafico. Di solito mi vien da pensare a Dalì che dipinge copertine per libri di fantascienza…

John Also Bennett: Robert è un buon amico e ormai ammiriamo il suo lavoro da tempo. Volevamo spingerlo a fare qualcosa leggermente al di fuori del suo solito stile, facendogli incorporare influssi provenienti dalla pittura medievale.

Mark Dwinell: Volevamo evocare qualcosa di medievale, di mitico. Uno dei nostri riferimenti era Pieter Bruegel il Vecchio.

Siccome suonerete a brevissimo in Italia, vi devo chiedere se ci raccontate qualcosa della parte visiva del vostro show.

John Also Bennett:  Niente visuals, fatta eccezione per noi tre che lavoriamo insieme per fare musica.

Mark Dwinell: La componente visiva siamo noi!

George Bennett: C’è molto interplay tra di noi e comunichiamo molto on stage. Di solito siamo molto impegnati quando stiamo là sopra.