FÖLLAKZOID, V
Conoscete anche voi quella persona che un giorno ha storto il naso e ha detto: “Joy Division? Io ascolto i Can”, magnificandovi un genere, il kraut, a cui viene attribuito ogni sorta di merito, da poter sfoggiare con più o meno la stessa spocchia con cui ci si ripresenta alle superiori dopo il primo anno di università. Il kraut-rock è stato per molto tempo il rifugio di chi non riusciva a venire a capo dello scollamento tra rock e innovazione: il kraut aveva “inventato tutto” (punk, techno, industrial…) e lo aveva fatto prima di tutti e tanto è bastato per diversi decenni. Nel 2023 il kraut è però cosa ormai sdoganata: molti gruppi psichedelici americani citano Neu!, Can e Faust come influenze dirette, e in altre parti del mondo, soprattutto in Europa, è stato ripreso come estetica a sé. Tra tutta questa banda di gente, ad aver interpretato in maniera più interessante il concetto di kraut sono stati senza dubbio i Föllakzoid. Esordirono nel 2009 su quella grandissima etichetta che fu Blow Your Mind Records di Santiago del Cile, con un disco la cui copertina richiamava Phallus Dei, e oggi, divenuti progetto solista di Domingæ García-Huidobro, con V seguono i passi techno-kraut intrapresi nel precedente I del 2019. La carriera dei Föllakzoid è una costante evoluzione per sottrazione: non solo dei componenti, prima con l’addio di Juan Pablo Rodríguez e poi con la dipartita di Diego Lorca, ma soprattutto sonora. La sperimentazione elettronica ha eroso il gruppo rock, con una sostituzione che ha le sue fasi intermedie in “III” e un taglio netto in “I”, ma che d’altronde è proprio naturale evoluzione biologica del kraut, di cui rimane l’ossessione per il ritmo e per l’esperienza auditiva come trance. I Föllakzoid rappresentano la proposta più progressista, più minimale e più algida del kraut contemporaneo: estranei a qualsiasi trucco nostalgico, più vicini all’elettronica minimalista di Kompakt Records o a Shit And Shine, si inabissano per più di cinquanta minuti di techno-kraut, un viaggio volutamente monocorde, inquieto, attraversato da voci campionate che assomigliano a messaggi che vagano per uno spazio terribilmente desolato. Oltre a questo, riecheggiano le liner notes: “sometimes, the most minimal framework is the strongest container for transcendence”.