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FLUXUS, Non Si Sa Dove Mettersi

Ricordo ancora quando da ragazzino misi le mani, quasi per caso, su Pura Lana Vergine, disco del ’98 dell’autodefinitosi “gruppo collettivo verticistico autodisorganizzato” di Torino. Un disco sprezzante, teso, il cui affondo contro tutto e tutti era sostenuto da un’intelligenza rara, le cui compressioni rabbiose giungevano spesso e volentieri a una sorta di punto critico in cui gli strati di rumore raffiguravano momenti di stasi catartica. Una specie di illuminazione collerica che ben si adattava alla proverbiale rabbia adolescenziale e alla necessità di demolire quello che c’è intorno per trovare una qualsivoglia “collocazione”. Inutile dire che questa fantomatica collocazione può essere un’illusione come un’altra, e tutto questo preambolo non era tanto per fare un ritratto che non importa a nessuno del recensore “as a young man”, quanto per evidenziare come questo nuovo lavoro dei Fluxus sia ancorato profondamente a questo tema, rendendolo esplicito sin dal titolo preso in prestito dagli Stormy Six. Perché è chiaro sin dal ’98 quanto possa essere feroce il senso comune in un “paese sull’orlo della perdita totale di ogni difesa immunitaria”, citando direttamente uno dei momenti migliori di Pura Lana Vergine. Quello che probabilmente nessuno si aspettava è che quell’orlo diciassette anni dopo sarebbe stato ampiamente superato, con quella ferocia di cui parlavamo diventata la caratteristica comune di narrazioni completamente deliranti che hanno permeato del tutto l’orizzonte, dal più oscuro recesso social fino alle aule della politica. Un’ondata di non-senso soverchiante di fronte alla quale davvero “non si sa dove mettersi”. La dinamica tra s/paesamento e una violenta reazione d’istinto sembra il filo conduttore di un lavoro che rispetto ai suoi predecessori appare più snello, più immediato, meno denso. Blitz cinici che si muovono sull’asse Helmet-Quicksand-Snapcase con quell’ormai classico riffing anni ’90 tagliato con l’accetta che si auto-costruisce la gabbia, salvo poi romperla in improvvise accelerazioni o implosioni e accorgersi che al di fuori c’è poco o nulla. Significativa in questo senso la presenza di tracce come “La Decima Vittima” (film di Petri ispirato alla “Seventh Victim” del romanziere di science-fiction Sheckley) o “Alieni Per La Strada”, due episodi più lenti (tanto dilatato e vulnerabile il primo quanto minaccioso il secondo) posti lì quasi come punti ultimi intorno ai quali gira il resto dell’album e che ben rappresentano quel disorientamento impotente percepito una volta che le sfuriate e gli assalti hanno saturato del tutto la tensione. Che c’è, è tanta, e fa male, anche se l’approccio più diretto che i Fluxus hanno utilizzato in questi trenta minuti ha tagliato fuori alcuni degli elementi più interessanti su cui in passato hanno costruito la loro specificità e forza espressiva. Ma c’è poco di cui lamentarsi: “Non Si Sa Dove Mettersi” è una lucida e impietosa fotografia dello stato di cose, di cui credo si senta più che mai il bisogno.