FLOATING POINTS, PHAROAH SANDERS & THE LONDON SYMPHONY ORCHESTRA, Promises
Un delicato arpeggio dal lontano sapore new age che attraversa quasi tutto il disco, scomparendo ogni tanto nel flusso sonoro per poi riapparire da protagonista, etereo e suggestivo. E poi lo spazio, le distese infinite costituite da silenzi, pause e movimenti sommessi, le consonanze continue appena sfiorate da accenni scuri e conturbanti, come brividi lungo la schiena. Una galassia fatta di meditazione e profondità, costruita sulla semplicità, la reiterazione, ma anche da quel suono materico del sax di Pharoah Sanders, attento, misurato, da fine cesellatore, che a ottant’anni ancora sprigiona fascino inaudito. I riferimenti sono inequivocabili: Steve Reich e Terry Riley, Necks, Alice Coltrane e il Sanders di Karma ovviamente, l’elettronica morbida di Sam Shepherd (alias Floating Points) alternata alla visionarietà psichedelica, il calore dell’orchestra, gli archi che pennellano fasce sonore luminose e i suoni appena sintetici che si intersecano con essa. Ed ancora, l’emozionante mormorio scat di Pharoah e il suono del violino che spunta dal nulla, vivido e affilato, il turbinio ipnotico di Shepherd con le scorribande moderate e conformi dell’orchestra. Inutile soffermarsi sui singoli Movimenti, perché il disco va consumato, lentamente, nella sua interezza, come un libro, dalla prima all’ultima pagina. E come in ogni buon libro il finale è completamente inaspettato, quasi improvviso, leggermente inquietante. Si può benissimo dire che sia musica dei nostri tempi, per quel mondo fermo ad aspettare che tutto passi, chiuso nelle sue paure ma anche nella speranza. È una musica da ascoltare al buio, seduti sul divano, viaggiando nell’unico modo possibile, con la mente e lo spirito. E non si creda sia semplice produrre un’opera di questo genere. La nostra esistenza compulsiva molto spesso ci impedisce di fermarci sulle idee e sulle emozioni, ci induce a provare continui rivolgimenti, successioni, sviluppi subitanei. E invece avremmo bisogno, proprio come fa questo disco, di fermarci, di creare semplici e sommessi moti ondosi, lentamente, riflettendo sulle microvariazioni, sulla staticità. È come un quadro di Rothko, o i monocromi di Yves Klein, con quei colori che raccontano storie nella loro permanenza, semplici e profondi allo stesso tempo, quel dosaggio perfetto di sfumature e di fluttuazioni.
Non so se sia il caso di gridare al capolavoro, come si sta facendo ora a pochi giorni dall’uscita di Promises. Potrebbe essere perfino un’offesa ad una musica che rifugge le grida e gli assoluti, distesa com’è placidamente sulle suggestioni accennate, promesse. Ma gli ascolti ripetuti e la sensazione di serenità ricevuta inducono a dire che certamente è un bel disco, da assaporare in questo periodo di sofferenza, artistica e vitale.