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FLAVIO ZANUTTINI, La Notte

Un soffio, come un’indagine in uno scantinato colmo di minuscoli sassi rotondi, nel tentativo di scovare l’unico diverso, una voce che rimbalza sulla nuca e assomiglia a quella di un estraneo, o a quella che poteva essere la lingua pre-alfabetica dell’uomo paleolitico. Come diceva John Cage: “An afternoon. FIftythousand years ago”. O ancora, in “Lectures on Nothing”: “There is nothing to say and I’m sayin’ it”. Il deserto che entra nella stanza, a testimoniare l’ineluttabilità della scomparsa di ogni cosa. Sassi che abitano nel respiro. Evoluzioni sul bordo del silenzio, acrobazie alla moviola, allusioni, elisioni, per una matematica acustica prossima allo zero. Flavio Zanuttini (Friuli strikes back, oramai ci siamo abituati, dopo Maistah Aphrica, Mahakaruna Quartet, Exp Quintet, di cui ho scritto per l’edizione cartacea de Il Manifesto recentemente, e le peripezie di Stefano Giust o le gesta di grandi musicisti come il pianista espanso Giorgio Pacorig) con La Notte propone un solo di tromba capace di essere intimo e glaciale al tempo stesso. Un’esplorazione organica e psicanalitica nei sottomondi del suono, tra riduzionismo zen e un rigore quasi classico (la seconda traccia, “Doppelgänger”, seppur slabbrata e attraversata da sibili drone, ha un che di orchestrale, novecentesco, nella melodia che lotte cocciuta per emergere dalla cenere e non si rassegna a sparire nel fuoco freddo delle risonanze, quasi uno Stravinsky immerso in una grotta (forse la grotta di Chauvet, in Francia, dove sono stati trovati i dipinti murali più antichi della storia, oggetto del magnifico documentario di Herzog “Cave of Forgotten Dreams”), tra calcari, ossa di esseri remoti, stalattiti e stalagmiti. È il suono di un inizio, come un big bang in miniatura che poi lascia spazio ai segreti che emergono dalle acque dove tutto cominciò, quasi a rivedere finalmente le stelle, ma poi la tentazione della speleologia è invincibile e si torna a immergersi nel deep listening, a vagare tra ombre e risonanze, tra profili appena accennati, figure fragili, silenzi antichissimi. “Cantabile” è come da titolo una voce nitida, quasi fosse uno spartito di un compositore tedesco sopravvissuto a una frana secolare (ancora Cage, dalle “Letture sul Nulla”: “I have a serious question to ask you. How do you feel about Bach?”). “ME & me” è un tuffo nelle profondità del riverbero, nelle viscere oscure del mondo, la tromba che si trasfigura fino a sembrare quasi un sax baritono o un batiscafo nel grande oceano del suono. È l’inizio di ogni cosa, è il buio, quindi la notte: “Bipede” sono i primi passi circospetti e senza meta di qualcuno che brancola nel nero assoluto, tra rimbrotti, circolarità, labirinti pneumologici, specchi pericolosi e bellissimi, fughe verso una luce che ancora non arriva. “Scelsi” esplicita il tributo al grande ed enigmatico musicista romano, un infinito piano sequenza che dà le vertigini, la respirazione circolare ad elevare inni laici e rigorosi ad un cielo che finalmente si apre ma resta lontano, indifferente, austero. Fino a quando le nostre intenzioni non si rilevano per quello che sono, se viste dall’alto, dove la gravità, come dicevano i Massimo Volume, è solo un ricordo, e quindi si spalanca il grande niente, e il suono, questo nostro vano tentativo di dimostrare che davvero esistiamo, che le cose hanno un senso, un fine che sia diverso dall’avere semplicemente una fine, trova requie in un denso, definitivo silenzio. Nucleo è un moto browniano di sputi à la Don Cherry, ruggini giapponesi, una versione minimale e incattivita di certe esplorazioni cosmiche di Rob Mazurek, spogliata di ogni velleità escapista, per consegnarsi e consegnarci alla terra spoglia, a un paesaggio scabro e non consolatorio. Chiude un disco terrigno e celeste “Éveil”, un risveglio da un sogno di una notte di mezza esistenza che per una mezz’ora abbondante ha il potere di farci dimenticare completamente il mondo intorno.