FLAVIO GIURATO, 12/7/2020
Carpi, Chiostri di San Rocco, nell’ambito di Coccobello 2020. Tutte le foto sono di Valerio Roncaglia.
“Il folksinger è quello che sta da solo”. Così un inaspettatamente loquace Flavio Giurato, mentre introduce uno dei pezzi del nuovo Recent Happenings, dieci canzoni tutte cantate in inglese, presentate in anteprima nell’ambito di Coccobello, la storica rassegna estiva organizzata dal circolo Arci Kalinka della vivace cittadina in provincia di Modena. Siamo forse allora tutti diventati folksinger nostro malgrado, durante i mesi dell’isolamento? No, perché un conto è stare da soli e un conto è saperci stare senza scadere nel patetico e saper osservare il vortice degli eventi, delle cose. Viviamo in tempi in cui tutti siamo diventati campioni di lamento, ma affoghiamo nella didascalia e nelle piccinerie meschine, mentre i pezzi di Giurato si elevano: sono dolorosi, ieratici, suonano solenni e asciutti, quasi fossero requiem per un mondo morente o lamentazioni da tragedia greca.
Aristotele nella Poetica scrive che “la tragedia è l’imitazione di un’azione seria e compiuta in se stessa, di una certa estensione, in un linguaggio adorno di vari abbellimenti, applicati ciascuno a suo luogo nelle parti diverse, rappresentata da personaggi che agiscono e non narrata, la quale mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni”. Ecco, sono tutti episodi della Storia di una Grande Ferita, quelli che arrivano dalla voce vicinissima e lontana del settantunenne cosmopolita romano, colto e spettinato, imbevuto di un’America letteraria e cinematografica, psichica, irreale e metafisica. Questo disco è il coronamento di un desiderio che coltivava da sempre, dice prima di iniziare, conscio lui stesso che qualcosa inevitabilmente vada perso nell’abbandonare l’italiano; invita il pubblico a dimenticare le canzoni già mandate a memoria, i vari livelli testuali che necessariamente non potranno essere colti ad un primo ascolto in queste nuove composizioni, senza falsa modestia ci dice che questi testi sono molto articolati e senza paragoni con quanto ascoltabile oggi in Italia. Cinque pezzi di ambientazione inglese (anni e anni fa il nostro fece pure il busker a Londra), cinque di ambientazione americana, tra racconti di immigrazione, il Pier Fourteen di Ellis Island a New York che diventa Pier Fortin, un personaggio, poi Lady D, il gioco del baseball, Fort Alamo, Malcom Robinson condannato alla camera a gas. I pezzi invero si somigliano l’un l’altro, ma lo avevamo già notato in passato, come frammenti di una personalissima mitologia domestica ed universale, frammenti di specchi rotti che si riflettono nelle pozzanghere dell’attualità. Una sorta di ragafolk del crepuscolo che induce alla penombra, una sura dell’ora che cade cantata con una voce roca e colma di una febbre visionaria e nitidissima. Ecco, è la voce, strappata da un abisso familiare, dolente e monumentale, calamita che attira ogni attenzione, è in quel luogo (la voce di Giurato è un luogo vasto) che si consumano celebrazioni, il falò di ogni intenzione e l’elogio dell’ombra, ed è difficile trovare nuove parole: due anni e passa fa, in occasione di un concerto a Bologna per presentare La Scomparsa Di Majorana, avevo scritto: “La voce, questo totem di pietra sbrecciato e luminoso, che indossa mille maschere e resta sempre più reale del vero, si fa invettiva, lamento, preghiera del muezzin, cronaca dolente, un quasi rap psichico e così intimo da sbalordire, speleologia, teatro, sempre a un passo dal puro respiro, piena di parole che svelano panorami”. Potentissimo il finale quasi teatrale, senza microfono, con un breve accenno, unico in italiano, a Il Tuffatore: “Voglio essere un tuffatore per rinascere dall’acqua all’aria”.