FIS, Oliver Peryman

Oliver Peryman/FIS e Rob Thorne, foto di Gabriele Daccardi

L’ho recensito da poco, ma riassumo: neozelandese trapiantato a Berlino, protagonista del 2016 elettronico con From Patterns To Details (Subtext), protagonista di nuovo nel 2017 per la sua collaborazione con “l’indigeno contemporaneo” Rob Thorne, che per le sue composizioni utilizza strumentazione tradizionale Maori, due volte in Italia solo pochi giorni fa, parte di un discorso più ampio che riguarda lui e un ventaglio di artisti Subtext, gente che sta smuovendo più di qualcosa in questi ultimi anni. Adesso so che è anche molto gentile e disponibile.

Sei su Subtext con Emptyset, Roly Porter e Paul Jebanasam. Tutti voi conoscete molto bene la cultura del sound system e tutti voi avete cambiato stile, focalizzandovi di più su atmosfere e texture, e meno sui ritmi. Come hai iniziato a lavorare con Subtext? Vedi tutte le similitudini che vedo?

Oliver Peryman (FIS): Ho incontrato per la prima volta James (Ginzburg, di Emptyset e Subtext, ndr) per via di un amico comune, Brandon Rosenbluth (di Portals Editions, Shaddah Tuum e nostro agente a Little Big). La collaborazione è cresciuta in modo naturale nel momento in cui ci siamo visti più spesso. È divertente immaginare le etichette come esseri viventi con una loro particolare personalità. Per me Subtext è come un amico che è devoto all’arte e offre al mio lavoro un passaggio diligente e incoraggiante nel mondo.

Vedo le similitudini che trovi. Siamo anche tutti molto diversi, ciascuno con la sua storia. Sin da quando sono arrivato in Europa ho visto quanto il mio percorso attraverso la musica elettronica è stato determinato dalle opzioni disponibili per me in Nuova Zelanda, dove sono cresciuto. I nostri negozi di dischi erano isolati, non riuscivamo a prendere certe stazioni radio a casa, e io ho avuto un accesso limitato a internet finché non sono diventato diciottenne e ho lasciato casa per l’Università. Quindi ho dovuto mettermi in contatto con la musica in modo più intuitivo, potevo sentire queste essenze smorzate fantasmatiche della musica che stavano “là fuori, da qualche parte”. Non ci pensavo molto all’epoca, ma guardandomi indietro sono contento di aver dovuto usare certe facoltà, anche se spesso mi sento fuori luogo in determinati circoli musicali, perché ho una conoscenza frammentata della musica a livello fattuale e teorico.

Subtext è parte di un’azienda più grande chiamata Multiverse Ltd. Multiverse fa anche scores for feature films (such as Roly Porter’s original score for “In Fear” and numerous Hollywood film trailers) (http://www.multiverse-music.com/ABOUT). Ti interessano queste attività? Realizzare qualcosa per film, videogame, pubblicità…

Sì, certo! Amo moltissimo il cinema, una forma d’arte molto potente e cerco di imparare molto a riguardo, il più velocemente possibile. Ho proprio iniziato a lavorare anche su di uno score, credo che i dettagli si sapranno presto…

Per favore, tieni presente che non abbiamo lo stesso background. Sin da quando ho intervistato Jebanasam, ho cominciato a pensare che i lettori abbiano bisogno di capire quanto la cultura del sound system influenzi ancora artisti come te. Ci puoi aiutare?

Sono influenze decisamente fondamentali per me, o come minimo c’è una corrispondenza radicata in termini di principi, ad esempio l’amore per il suono. Questa è una cosa semplice, ma spesso sottovalutata nell’elettronica, mi pare.

Ho cercato di osservare e di imparare da chi faceva i soundsystem, tornato a casa. Il modo in cui potevano preparare il sound per volumi forti. È difficile da descrivere, ma riuscivano in un certo senso a riempire lo spazio di suono,  con opportuni intervalli dinamici e fisicità nelle basse frequenze, e in generale c’era un particolare tipo di presenza nel mix che lo rendeva vivo e gli dava energia. C’era anche un certo tipo di atteggiamento verso l’audience che avrebbe poi preso parte all’evento, si davano la libertà di suonare e divertirsi personalmente, ma anche di incontrare le persone mettendosi sullo stesso piano e lasciando che anche queste perdessero la testa.

Quando parliamo di musica elettronica oggi, un tema comune sembra essere il “massimalismo”. Non sembra sia tempo per glitch, isolazionismo e sottogeneri elettronici più silenziosi… Ti piace come definizione?

Devo dirti che non penso davvero alla terminologia da usare in relazione alla mia musica, e anche se parliamo di musica in generale, credo. Cerco di prendere le cose per come sono e fare musica per il gusto di farla. Una volta che inizio un pezzo, subito ne percepisco il potenziale, e mi ispira che questo stesso pezzo possa esistere un giorno, quindi ci lavoro sopra finché non sento che è completo

Questa è molto breve, ma necessaria: cos’hai imparato da Rob Thorne?

Gran domanda. Mi ha insegnato così tanto. Più di quello che posso capire, forse. È un vero maestro. In quanto artista improvvisativo mi ha sul serio aiutato molto per il live. Penso che il mio modo di suonare live sia di gran lunga più “aperto”, adesso. Doveva succedere per poter suonare con lui.

Però in un certo senso le cose più grandi che ho imparato da lui non hanno nulla a che fare con la musica e allo stesso tempo ce l’hanno. La collaborazione è amicizia adesso, vita e arte diventano un unico.

Porter, Jebanasam, Lustmord con Dark Matter, Ben Frost con Aurora… Sembra che parte del mondo della musica elettronica si stia ancora ponendo le grandi domande (chi siamo? Da dove veniamo? Significhiamo qualcosa?). La tua collaborazione con Rob ci fa pensare a un sacco di grandi temi: “tecnologia e natura”, “mondo occidentale e altre culture”… Volevate indurre queste riflessioni?

Sì, direi perché no?! Credo che se la mia musica punta a queste cose, lo fa attraverso il suono, in modo non verbale, e spero che la gente possa rilassarsi e anche ridere con essa, questa alla fin fine è una parte di quelle grandi domande.

Giorni fa tu e Rob avete suonato a Milano e Torino. Purtroppo per me era troppo difficile raggiungervi. È andata bene? C’era gente? Ho letto che hai precisi standard per quanto riguarda l’impianto dei locali. Il tuo show è fisico come e quanto credo? Di solito hai visuals?

Sì, direi che la gente è venuta apposta per vederci. Milano e Torino erano tra le tappe finali del tour, quindi in quel momento io e Rob avevamo già potuto sviluppare la nostra intesa performativa e credo sia stato molto libero e fluido. Noi di sicuro ci siamo divertiti.

Anche i sound system erano grandiosi. Superbudda possiede un set up adorabile e Macao la fa sempre come si deve. Ci sono belle basse frequenze negli strumenti di Rob, spaventose a volumi alti. Di solito stiamo senza visuals, dato che preferiamo suonare al buio, lascia che la gente si focalizzi sul suono e sia più responsabile e creativa nella sua fruizione.