FIELD DAY, Opposite Land
I Field Day, nome non casuale, sono composti per due quarti da ex Dag Nasty, ovverosia il cantante Peter Cortner e il bassista Doug Carrion (anche ai cori), accompagnati da Shay Mehrdad alla chitarra e Kevin Avery alla batteria.
Nati come tributo alla band di casa Dischord, della quale eseguivano brani dal vivo, hanno presto cominciato a comporre proprio materiale e pubblicato il 7” Field Day 2.0, un esordio che ha subito attirato l’attenzione e che è rimasto per parecchio in cima alle classifiche di vendita delle label coinvolte. Le stesse etichette che hanno pubblicato questo nuovo Opposite Land, con cui i Field Day dimostrano di aver affinato la loro scrittura e di aver trovato il giusto punto di equilibrio con le radici ancora saldamente radicate in quel mix di energia hardcore e melodie che hanno reso immortali i brani dei Dag Nasty, in cui oggi si inserisce una vena personale che sposta la bilancia verso un hardcore anthemico e ricco di melodie che non fatica ad entrare in testa e conquistare l’ascoltatore. Anche questa volta ne è riprova l’enorme successo del vinile one sided che a distanza di qualche mese continua ad essere un bestseller e ad attirare nuova attenzione sulla band, tanto da averne fatto un piccolo caso nella scena di appartenenza. La spiegazione sta in parte e di sicuro nel nome capace di richiamare molti nostalgici della stagione d’oro del genere, ma anche e a buona ragione nella scrittura di brani che colpiscono con precisione il bersaglio e non faticano a diventare instant classics. Chi scrive è da sempre un fan dei Dag Nasty e, in particolare, del loro periodo con Peter Cortner alla voce, anche per i suoi testi diretti eppure ricchi di dettagli e mai banali, soprattutto in grado di entrare sotto pelle e venire immediatamente fatti propri (caratteristica imprescindibile del cosiddetto emo-core), quindi non giocherò la carta dell’indifferenza o della equidistanza nel giudicare questo lavoro, eppure appare chiaro che non si tratta di una mera operazione nostalgia, vista la qualità dei singoli contributi dei quattro musicisti coinvolti. Non c’è nulla di dozzinale o lasciato al caso nel creare queste perfette hit che coprono lo spettro tra Dag Nasty, Bad Religion e 7 Seconds, solo a citare tre band in grado di far tremare le gambe a qualsiasi appassionato della migliore scena hardcore anni Ottanta. Dall’iniziale “One Song” con la chitarra che fa subito drizzare le orecchie e il coro irresistibile, tutto il disco è pervaso di quello strano mix di gioia e malinconia, voglia di gridare e di piangere uniti sotto un palco che in fondo ci mancava da un po’. Ho scaricato la versione digitale appena uscito a novembre, ma ho preferito aspettare di avere tra le mani il vinile prima di scrivere la recensione, una scelta rivelatasi vincente perché sentire quei suoni e quella voce uscire dalle casse dello stereo con calore e corposità alza ulteriormente la capacità di apprezzare l’opera dei quattro e fuga ogni possibile dubbio residuo. Per questo direi che possiamo pure lasciar stare tutte le discussioni e i sofismi e dirci apertamente che questo disco vale tutta l’attesa, in fondo erano anni che qualcosa di simile non mi prendeva in questo modo, per cui mi scuserete l’entusiasmo e saprete fare l’eventuale tara.