FAKE NAMES, Fake Names
Fake Names è il nome di un supergruppo che già sulla carta fa scorrere i brividi lungo la schiena a qualsiasi fan della Dischord. In formazione troviamo infatti Brian Baker (Minor Threat, Dag Nasty, Bad Religion), Michael Hampton (S.O.A., Embrace, One Last Wish) e Johnny Temple (Girls Against Boys, Soulside), accompagnati dalla voce di Dennis Lyxzén (Refused, The International Noise Conspiracy). Per comprendere da dove arrivi il loro suono si deve ritornare con la mente al periodo della Revolution Summer. Con Revolution Summer si fa riferimento alle band di casa Dischord che, nell’estate del 1985, decisero di opporsi all’imperante machismo e alla violenza dilagante nella scena con un sound in cui il testosterone veniva stemperato per essere sostituito da un approccio più emotivo (da qui la nascita della scena emo) e melodie più nette. Tra le band coinvolte basti citare nomi quali Rites of Spring, Gray Matter, Beefeater e Reptile House, a cui andrebbero aggiunti quelli di chi, già dall’anno successivo, ne raccolse i semi per spingere ancora di più sul versante melodico e in qualche caso (perché no?) pop: Dag Nasty, Embrace, Soulside, Ignition, Three, High Back Chairs, Shudder To Think e Nation Of Ulysses. Da queste radici, i Fake Names partono per creare un proprio linguaggio che non disdegna una robusta iniezione di rock e una marcata impronta power-pop presente in ciascuno dei dieci brani, il tutto condito con la necessaria dose di energia seppure tenuta sotto controllo e in qualche modo imbrigliata. Non si tratta, quindi, di un disco punk nel termine usuale del termine, né ci si deve aspettare lo spirito ruvido delle uscite targate ’85, perché il tempo è passato e, oggi, questo DNA si sposa con una scrittura più matura, suoni scelti con cognizione di causa – a tratti verrebbe da sussurrare patinati nella loro perfezione formale – e una cura nella scrittura delle dieci canzoni che va sottolineata per l’assenza di colpi a vuoto o semplici riempitivi. La voce di Lyxzén è perfetta nel donare l’appropriata indole ruffiana al tutto e dà la giusta spinta a cori dall’alto potenziale radio. Questo aspetto, a fine corsa, ci porta probabilmente un po’ troppo distanti dalla pianta madre (cfr. “First Everlasting”), quasi si fosse saltato così tanto in alto da ritrovarsi dall’altra parte dello steccato, ma va bene così perché sarebbe ridicolo aspettarsi da questi musicisti adulti la stessa foga adolescenziale del tempo. Tutto bene, quindi, il supergruppo non è una bufala e non ha buttato lì un pugno di canzoni frettolose per far cassa grazie all’hype creato dai nomi coinvolti. La stoffa c’è, si sente tutta la storia dei protagonisti, non si avverte mai quel sapore di compitino svolto in casa e tutto gira a dovere. In più, si gioca a carte scoperte e quello che si acquista vale il prezzo del biglietto, a patto di non aspettarsi chissà quale rivelazione sulla via di Damasco.
P.S.: Detto questo, ammettiamo che finito l’ascolto tireremo fuori un disco più incazzato e punk magari, per restare in tema, qualche vecchio gruppo Dischord o i Refused, molto più probabilmente qualche gruppo nuovo che ha fame di condividere la propria urgenza creativa o la propria incazzatura con la società. Perché alla fine, inutile negarlo, siamo ancora un po’ adolescenti dentro e il debutto dei Fake Names suona un po’ troppo… (riempire i puntini a scelta).