Fabrizio Puglisi: la vita non è un significato, ma un desiderio
Fabrizio Puglisi è un pianista, compositore, improvvisatore felicemente inquieto, dal curriculum ricchissimo e dagli orizzonti più che aperti spalancati, capace di passare da una rivisitazione dei Meshuggah alla trance della musica africana, dal free più ispido al ragtime, senza mai perdere il filo di una musicalità luminosa e viva, che restituisce sempre l’idea di un suono in perenne movimento. Venerdì 18 luglio sarà all’Area Sismica per sonorizzare due muti del monumentale Charlie Chaplin – che abbiamo citato nel titolo dato a questa conversazione – del 1916 e del 1917. Ne abbiamo profittato per farci raccontare un po’ di cose.
Ci presenti il concerto che proporrai all’Area e ci parli del tuo rapporto con le sonorizzazioni? Come ti muovi in questo ambito?
Fabrizio Puglisi: La sonorizzazione dei corti di Chaplin mi è stata commissionata dall’AME (Associazione Musicale Etnea) ed è stata presentata a Catania in premiere nel gennaio di quest’anno. Ho avuto una certa libertà nella scelta dei corti da musicare e mi sono immerso nella visione di questi capolavori, molti dei quali conoscevo già. Anni fa avevo letto l’autobiografia di Chaplin e mi era piaciuta moltissimo. Non era detto che mi piacesse, qualche volta le autobiografie dei geni sono stucchevoli e molto autocelebrative. Da tanti anni faccio sonorizzazioni live di film muti, dai classici del muto italiano ai soliti corti che si propongono agli improvvisatori, bellissimi peraltro: quelli di Norman McLaren, Duchamp o René Clair. Questi ultimi sono relativamente semplici da musicare in quanto in sostanza si possono adattare a qualunque tessitura musicale. Chaplin è decisamente più difficile, perché in quei 25 minuti succedono tantissime cose, sono pieni zeppi di trovate, gag: si va dalla farsa all’equilibrismo, un tocco di malinconia e romanticismo per poi ripiombare nella giocoleria e nello humour cinico. Proporre quindi “The Immigrant” e “The Rink” ha comportato un lungo lavoro di ricerca e di prove in cui ovviamente non seguo dettaglio per dettaglio l’intreccio ma ho vari punti in cui “devo” incrociarmi con le immagini (peraltro bellissime nella versione restaurata dalla Cineteca di Bologna). In questo caso non si tratta solo di musicare i film, ma di metterci un po’ di farina del mio sacco, un po’ di contemporaneità. “The Immigrant” è in effetti un tema molto contemporaneo ed allo stesso tempo molto antico: se vuoi, si può vedere tutta la storia del mondo come una storia di migrazioni e, purtroppo, talvolta di deportazioni. Ho voluto mantenere un colore musicale d’inizio secolo con brani di Jelly Roll Morton o Fats Waller e, a contrasto, alcuni brani miei usando oltre al pianoforte anche un po’ di elettronica, giocattoli, il toy piano e, addirittura, la melodica.
Olanda, Africa…sei un musicista dagli orizzonti e dalle collaborazioni vaste… cosa hai in piedi attualmente e quali sono le collaborazioni dei tuoi sogni? Ci racconti un po’ delle tue esperienze olandesi ed africane e come si riflettono nella tua musica oggi?
Raccontare gli anni olandesi in maniera sintetica è molto difficile: sicuramente l’approccio all’improvvisazione e al jazz di musicisti come Misha Mengelberg, Tristan Honsinger, Sean Bergin, Han Bennink mi ha aiutato moltissimo nella ricerca di un linguaggio musicale personale. Qualcosa che andasse al di là dell’interesse per il mio strumento che ha già un’infinità di riferimenti e modelli. Probabilmente il non concentrarmi ossessivamente sul piano ma cercare un’idea di musica di più ampio respiro mi è stato utile per diventare un pianista migliore. Da quando sono stato in Senegal a suonare per la prima volta nel 1992, l’Africa è stata una delle mie grandi fonti d’ispirazione. Negli anni ’90 ho suonato con Irian Lopez Rodriguez, grande maestro della tradizione afrocubana che per anni ha vissuto in Liguria. Irian è un “babalawo”, una figura spirituale importante della santeria, la religione sincretica che ha la sua origine nelle culture Yoruba e Bantu. Poi ho incontrato musicisti Gnawa marocchini, tra i quali il grandissimo suonatore di guimbrì Omar Ayat. Gli Gnawa hanno un culto sincretico che fonde l’Islam con forte influenza sufi a religioni animiste più antiche. Ho suonato spesso in Africa con musicisti egiziani, sudanesi, etiopi, marocchini e anche in Italia con musicisti maliani o del Burkina Faso. Per me è una grandissima scuola non soltanto sul piano del ritmo, ma anche della melodia, della forma, del timbro. In Africa come nelle culture tradizionali la musica spesso è funzionale a momenti importanti della collettività, alle funzioni religiose come alle feste, alla celebrazione di importanti eventi storici o natalità, funerali, matrimoni e quant’altro. Quindi ho cominciato ad approfondire lo studio non solo delle musiche ma delle culture africane dal punto di vista storico, antropologico o etnologico. Interessandomi alle musiche legate alla guarigione come nella santeria, il candomble in Brasile o nella cultura Gnawa, ho scoperto (e vissuto come spettatore in Africa) alcune forme di trance legate a questi culti, che hanno molte affinità con aspetti che anche in Occidente o in Asia hanno grande diffusione. In Occidente ed in Italia in particolare il cristianesimo li ha progressivamente cancellati, ma dai culti dionisiaci al tarantismo pugliese il salto non è poi grande come potrebbe sembrare. Varie forme di trance restano in qualche modo legate alla performance musicale nell’ambito delle musiche tradizionali, improvvisate ma anche – perché no? – nelle musiche colte. Il jazz è pienissimo di esempi in questo senso, basta pensare a Coltrane, Cecil Taylor, Sun Ra e così il cerchio si chiude. È un argomento troppo grande per essere sintetizzato in poche righe, ma ti assicuro che non ho un atteggiamento superficialmente new age, c’è tantissimo da studiare, da leggere e da praticare e niente di tutto ciò si trova in rete…
Come hai vissuto il periodo del lockdown? Hai fatto lezione ai tuoi alunni via Zoom come tanti? Come credi ne uscirà la musica, e tutto il resto? Andrà davvero tutto bene, o ‘sta ceppa di minchia?
Nel rispetto non retorico delle persone che non ci sono più e di quelli che sono stati male (purtroppo anche alcuni amici), di quelli che hanno perso il lavoro e di quelli che si sono trovati in prima linea a fronteggiare il virus, io devo ammettere di essere stato benissimo. Con la mia compagna, mio figlio, ho studiato tantissimo il pianoforte come non facevo da anni, mi sono riappropriato di tempi più dilatati che si sono progressivamente riempiti di cose molto belle. Le giornate erano molto ricche e produttive. Sinceramente l’unica cosa che mi è veramente mancata è stata la natura, quel momento della primavera in cui si torna a fare qualche passeggiata in montagna o al mare. Una sospensione di un mese ogni anno (febbraio? senza pandemie, però) sarebbe molto positiva per la salute di tutti, per l’inquinamento, per il riappropriarsi dei nostri spazi, delle relazioni con le persone più vicine. Una forma evoluta di letargo. Ma l’economia ed il cosiddetto progresso tecnologico non ce lo consentono. Ho fatto tantissime lezioni on line per gli studenti del Conservatorio di Ferrara e di Siena Jazz. Una lezione di strumento on line è ovviamente un surrogato mostruoso di una lezione in presenza, ma non c’erano alternative per non fare perdere un anno agli studenti. Spero sinceramente che si possa tornare alla normalità nella didattica al più presto.
Mi racconti il tuo primo ricordo musicale?
Difficile andare così indietro, certo ricordo le prime lezioni di pianoforte a sette anni, ma ancora prima ricordo che suonavo sulle ottave alte del piano nello studio di mio papà mentre mio fratello più grande improvvisava qualcosa. Poi cantavo “Oh Susanna” accompagnandomi con tre accordi sulla chitarra insegnatimi sempre da mio fratello, che mi portava anche a qualche concerto. Ricordo da piccolo di aver visto due volte Pino Daniele con la band storica (De Piscopo, Senese, Joe Amoruso…), Roberto Ciotti con Ginger Baker, la PFM…
Quando hai capito che saresti stato un pianista, e qual è stata la folgorazione più importante sulla tua via di Damasco?
Il primo momento in cui ho avuto la consapevolezza che mi sarebbe veramente piaciuto diventare un musicista professionista è stato quando ho frequentato i Seminari di Siena Jazz nel 1986. Avevo diciassette anni. Franco D’Andrea mi fece capire quanto c’era da studiare e da approfondire e questa cosa mi piaceva moltissimo. Una folgorazione importante fu fare musica d’insieme con Enrico Rava, sempre ai seminari di Siena Jazz ma qualche anno dopo, nel 1989. Non avevo mai suonato con un musicista così grande, con quel suono bellissimo. Si lavorava sul modo di fare musica al di là delle problematiche tecnico-strumentali, si parlava di interplay, senso dello spazio, respiro, ascolto degli altri, uscire dai cliché, provare ad inventare sempre qualcosa di nuovo, suonare qualcosa che non avevi suonato mai prima.
Primo e ultimo disco acquistato?
Primo acquisto il vinile di “A Hard Day’s Night” dei Beatles. Restai un po’ deluso, già conoscevo “Let It Be”, che mi era stato regalato a Natale e mi sembrava infinitamente più bello. In effetti… L’ultimo acquisto un cofanetto di 3 cd di Ellington con brani dal 1927 al 1941. Molte cose le avevo già, ma alcune non in cd e soprattutto ci sono i duetti con Jimmy Blanton che conoscevo ma non avevo.
Che tipo di ascoltatore sei? Cosa ascolti in questo periodo?
Sono un ascoltatore vorace, ascolto molta musica da vinili, cd, in autoradio, mp3 (volente o nolente), la radio; compro ancora cd e vinili usati. I vinili non ho mai smesso di comprarli, mi dispiace un po’ che siano tornati di moda, fino a qualche anno fa si compravano per due lire nei mercatoni di roba di seconda mano. Ascolto cose diversissime, inutile fare un elenco. Mi vengono in mente tra le ultime Sonatas And Interludes di John Cage, brani pianistici di Giacinto Scelsi, un disco di Johnny Griffin con una big band con gli arrangiamenti di Melba Liston, Richter che suona Beethoven, e poi Monk, che gira e rigira torna sempre.
Come lavori alla composizione? La musica la capti, è già nell’aria, è un lavoro lungo, fulmineo, o come?
Una volta era un lavoro più rapido, potevo scrivere un brano in un giorno. Adesso è più complesso e lungo, più meditato. Tra l’altro ora mi capita di scrivere per organici più grandi. Negli anni ho scritto parecchie cose per organici allargati o big band. Al momento c’è un progetto per suonare alcuni di questi pezzi che sono stati portati poco dal vivo in un concerto in cui verranno eseguiti ed elaborati con la Tower Jazz Composers Orchestra. Sono felicissimo perché la Tower è una delle formazioni più belle che sono nate e cresciute negli ultimi anni.
Lo stato di salute dei giovani ascoltatori e musicisti dal tuo privilegiato punto di osservazione, intendo il Conservatorio.
Purtroppo l’mp3 impera e temo che nel giro di un paio di generazioni i recettori acustici del genere umano non percepiranno più le frequenze basse… forse neanche le frequenze alte saranno ben percettibili per i danni procurati dagli auricolari. I cani continueranno ad avere un ampio range percettivo che permetterà loro di apprezzare le sfumature di Sciarrino o Gil Evans… Scusami lo humour nero, ma se ascoltare musica regolarmente da una cassa bluetooth è considerato già un ascolto di qualità non posso essere ottimista.
Comunque ci sono studenti e giovani musicisti molto bravi ed intelligenti che riusciranno a fare musica di alto livello, su questo sono fiducioso.
È più difficile scrivere una canzone perfetta o improvvisare?
Entrambe le cose sono difficili, la scrittura di una canzone ha forse bisogno di un’ispirazione più fulminante. I grandi improvvisatori scrivono o riscrivono una canzone quasi perfetta in real time. In realtà è proprio l’imperfezione che la rende bella.
Guantanamo (un progetto per largo ensemble dedito alla musica cubana: il disco Giallooro, pubblicato da Caligola nel 2017, è una bomba): speranze di vedervi live?
Ho tanto materiale nuovo pronto per Guantanamo. Al momento portare in giro una formazione di 6/7 elementi con vibrafono, marimba, altri due percussionisti, piano acustico (…) è abbastanza difficile, ma il gruppo attende solo qualche occasione per rimettersi in moto.
Adesso sto pensando a formazioni più piccole, al piano solo, al duo con Dan Kinzelman al clarinetto e sassofono, il duo col violoncellista Francesco Guerri, il quartetto Fawda o il duo con Cristina Zavalloni, col quale proponiamo un repertorio di canzoni tra Chico Buarque, Radiohead, Battiato, Beatles, Laurie Anderson, Meshuggah, Sigur Rós.
Lo stato di salute della musica creativa in italia dal tuo punto di osservazione.
La scena c’è ed è di ottimo livello, anche paragonandola ad altre realtà internazionali. Certo noi facciamo più fatica rispetto ad altri a venire fuori perché viviamo in un Paese che investe pochissimo in cultura, ricerca e innovazione. Per fortuna qualcuno continua a creare situazioni stimolanti, i primi che mi vengono in mente sono Area Sismica a Forlì, Curva Minore a Palermo o il Centro D’Arte di Padova. Ci sono anche altri centri di produzione per la musica creativa in Italia ovviamente, tutti fanno una gran fatica a realizzare i loro progetti con finanziamenti irrisori.