Fabrizio Ottaviucci, sequenze e frequenze
Nel ricco programma di Forlì Open Music 2021 – 26 e 27 giugno, Arena di San Domenico – tra le tante proposte di grande prestigio spiccano tre piano solo affidati a musicisti che fanno riferimento a percorsi diversi ma tutti profondamente immersi nel contemporaneo. Ciro Longobardi aprirà i concerti di domenica 27 presentando un programma a dir poco eccitante, sofferte onde serene di Luigi Nono, L’Alouette Lulu dal catalogo di musica ornitologica di Olivier Messiaen e di Claude Debussy Estampes, tre pezzi che ci raccontano le visioni di paesi lontani che il compositore francese avrebbe voluto visitare. Chiuderà la serata e il festival l’inglese Alexander Hawkins, tra più versatili e coinvolgenti protagonisti della nuova generazione di improvvisatori del jazz europeo che ci aprirà a mondi diversi. Sabato 26 salirà sul palco dell’Arena San Domenico Fabrizio Ottaviucci, uno degli interpreti più raffinati e profondi della musica d’oggi. Ascoltare, vedere i concerti di Ottaviucci è un’esperienza unica sia sul piano del gesto, del suono, per il carisma che trasmette quando mette le mani sulla tastiera. A lui abbiamo chiesto anticipazioni sulla sua performance per la Quinta edizione del Forlì Open Music. Ma non solo, approfittando della sua squisita disponibilità e competenza, l’abbiamo coinvolto in un breve sguardo sulla situazione della musica d’arte nel nostro paese.
Nel programma di Forlì Open Music 2021 il tuo set in solo di sabato 26 giugno è presentato come una improvvisazione. Partirei da qui. Improvvisazione è una definizione che ha creato e crea spesso equivoci e incomprensioni. In realtà sia che la intendiamo come forma di libera invenzione su uno o più temi, sia che la consideriamo ideazione estemporanea non pianificata e imprevedibile, è un concetto che troviamo costantemente nella storia della musica. Io, per esempio, da adolescente appassionato di jazz pensavo che il jazzista fosse l’unico grande improvvisatore, poi mi è bastato sfogliare qualche storia della musica per scoprire che oltre a Charlie Parker si improvvisava nel Medioevo, improvvisavano Bach, Mozart e Scarlatti, anche i romantici. Quale è il tuo rapporto con l’improvvisazione?
Fabrizio Ottaviucci: Aggiungo che l’improvvisazione è la forma naturale di espressione musicale dell’uomo, da sempre e forse per sempre. È un po’ come il parlare rispetto al comporre versi o scrivere libri. Questa pratica, l’improvvisazione, è stata ed è l’anima della musica in gran parte del mondo. In Occidente da diversi secoli essa è stata superata come attenzione dalla musica determinata, scritta, composta, ma in ogni tempo e quasi in tutti i compositori è sopravvissuta con importanza. Il Novecento, oltre la nascita del jazz e della sua pratica primaria dell’improvvisazione, ha riconnesso anche in modo formale questa tecnica creativa con il pensiero delle avanguardie, attraverso il filone “aleatorio”, le sperimentazioni indeterminate, la filosofia dell’opera aperta. I compositori, per lo più americani, che hanno percorso queste strade nella seconda metà del Novecento hanno il pregio di aver colto un pensiero di una modalità creativa che, secondo me, sarà alla base dei tempi a venire. Già oggi le esperienze degli improvvisatori, non più riconducibili a definizioni di generi, sono parte attiva e di primo livello della musica contemporanea colta.
Anche per me improvvisare è stata una sorta di necessità primaria; sin da giovanissimo l’ho praticata come impulso istintivo per entrare attivamente nel mondo della musica. L’incontro con i miei maestri, Markus Stockhausen, Giacinto Scelsi, Stefano Scodanibbio, mi ha innestato una volontà di ricerca e di consapevolezza. Il mio linguaggio improvvisativo si declina in frequenze diverse, avendo il suo centro nel tentativo di connettere le energie espressive del momento in cui avviene l’evento sonoro, e quindi del luogo, del tempo, delle persone che vi presenziano. In una parola, coniata da Stockhausen padre, improvvisazione intuitiva.
Vorrei affrontare con te, che sei oltre che interprete anche organizzatore e direttore artistico, le problematiche che un’altra definizione legata alla musica non pochi problemi crea: contemporanea. Un termine bellissimo che purtroppo ancora inquieta, non solo il pubblico della classica, ma anche i direttori artistici che nella migliore delle ipotesi incastrano nei cartelloni le musiche del Novecento tra Mozart e Beethoven. Avanguardie storiche e composizioni di oggi trovano posto in rassegne di tendenza che fanno riferimento ad un pubblico ristretto e specializzato. Perché gran parte del pubblico della classica rifiuta di comprendere che esistono compositori che scrivono musica anche oggi? Perché reputano difficili a prescindere linguaggi non storicizzati e codificati? È un problema culturale, sociale, politico…come si può affrontare secondo te?
Il problema è grave, gravissimo e coloro che possono fare qualcosa lo fanno, ma hanno poco potere e possibilità di incidere; coloro che ne hanno non capiscono la portata del problema. Perciò è senz’altro un problema politico. O meglio la politica, ovverosia la direzione delle scelte, è la dimensione che dovrebbe affrontarlo.
Purtroppo non si realizza che la cosiddetta musica contemporanea è la musica più importante, quella che verrà ricordata a distanza di molti secoli, che segnerà la storia del nostro tempo, la racconterà ai posteri. La sola che avrà questo privilegio: chi si ricorderà degli strafamosi big del pop di oggi nel 2500? Mentre i nomi dei compositori contemporanei che oggi conosciamo solo in pochi saranno famosissimi tra tutti gli studenti di musica del futuro.
Quindi prima di tutto ci vorrebbero ministri e assessori illuminati. Che diano all’espressione contemporanea colta, cioè quella che prosegue il percorso della grande musica del passato, la primaria importanza. Progetti e investimenti per colmare, attraverso la presenza e interventi intelligenti e formativi, il gap di comprensione tra gli artisti e gli ascoltatori, dando ai primi la responsabilità del loro ruolo, ai secondi un vocabolario aggiornato.
Ma si sa che nei luoghi del potere decisionale questa sensibilità è cosa rara, perciò l’unica è continuare ad essere vivi e presenti come e dove si può; come artisti recepire “l’ispirazione” dall’esistenza tutta, senza isolarsi dalla necessità collettiva, come organizzatori creare con sensibilità le occasioni per coinvolgere nuove orecchie ed anime curiose.
Torniamo a Forlì Open Music. Mi è parsa una scelta molto coinvolgente e condivisibile quella dei curatori di richiedere agli artisti ospiti di omaggiare Claude Debussy. Da una parte si riconosce il ruolo assolutamente innovativo del compositore francese dal quale le avanguardie hanno attinto molto (riconoscendolo poco, però). Dall’altra l’avvicinamento di sue composizioni in tempo reale con i linguaggi di oggi ci permettono il privilegio di verificare possibili connessioni. Sei d’accordo con questa lettura?
Il Forlì Open Music si è caratterizzato per la presenza ravvicinata di tre frequenze stilistiche, la musica classica, la musica classica contemporanea e la musica di improvvisazione radicale. Quest’anno con Ariele Monti, con il quale condivido le scelte, abbiamo deciso di concentrare la proposta classica su Debussy; lo straordinario compositore francese è, concordo, assolutamente innovativo e il suo vocabolario è stato riutilizzato in tutta la musica del Novecento. La raffinata bellezza delle sue opere, senz’altro ancora classiche, contiene già il seme del pensiero successivo, un pensiero che distanzia il suono dai suoi parametri costruttivi, esaltando quello timbrico e isolando perciò i suoni delle “parole” e delle “sillabe” dal senso della frase. Da questa esaltazione nasce la ricerca del “centro del suono”, il senso della “materia”, ma anche l’assenza di sintassi tradizionale che è alla base del pensiero compositivo astratto.
Ci provo, anche se forse è un po’ presto. Hai già riflettuto su quali materiali affrontare a Forlì, o salirai sul palco senza nessuna elaborazione preventiva e ti lascerai guidare dal flusso del momento quando metterai le mani sui tasti?
Il festival era stato programmato per dicembre 2020; a quel tempo avevo le idee precise di come volevo impostare la mia performance di improvvisazione, decisioni che nascevano dalle ricerche che stavo attraversando. Questo tempo di pausa è stato per me e per molti musicisti destabilizzante e tante cose si sono mosse dentro, modificando le percezioni e le proiezioni del proprio sentire. Perciò sto pensando da qualche settimana di affrontare il concerto, che sarà il primo dopo nove mesi, nel modo più radicale che si possa, cioè azzerando qualsiasi riferimento e lasciando l’ispirazione intuitiva libera di esprimersi in modo totalmente estemporaneo. A Forlì c’è un pubblico bellissimo e spero che funzionerà.