EXTRA LARGE UNIT, More Fun Please

“Quando scrivo musica cerco gli estremi, di spingere più in là i confini: limitazioni fisiche, dinamiche, strumentali, quanto veloce, lento, piano e forte possa suonare ciascuno. Mi interessano le forme inusuali del pensiero. Voglio dare ai musicisti fiducia e voglio che prendano l’iniziativa e che sentano la responsabilità di cosa significhi essere uno strumentista in un contesto di gruppo”. Così Paal Nilssen-Love, batterista monstre e leader della Large Unit, qui in versione extra (27 i musicisti coinvolti, 3 pianoforti a coda), per un unico, lungo (mezz’ora abbondante) pezzo, registrato dal vivo ad Oslo al Connect Festival.

L’urgenza free e l’impeto punk hardcore che da sempre caratterizzano l’approccio vulcanico del musicista si stemperano, almeno in parte: questo potrebbe scrivere l’ignaro recensore dopo aver ascoltato i primi sette minuti del live, persi tra fantasmi di John Cage, pause, rimbrotti, imitazioni del canto degli uccelli. Poi però inizia un maelstrom travolgente come un terremoto e prende il sopravvento, spazzando via tutto per due minuti circa. Si resta annichiliti e sbalorditi dinanzi a tanta furia, un’orchestra come un panzer, l’incubo di ogni conservatorio, un’orda di barbari che si impossessa di un auditorium, la marea che si alza, si alza, si alza ancora, e alla fine, un’apertura sinfonica che ha del prodigioso: come uno Stravinsky cattivo e rancoroso che decide di maltrattare tutti gli interpreti per farli affannare e sfiancare. Dialoghi bellissimi della sezione fiati (sono sei, ma sembrano cento) costruiscono figure sghembe e imprendibili, successivamente ricalcate dagli archi, mentre il caos rimonta, rimonta senza suonare eccessivo o gratuito, pur essendo davvero elargito a pienissime mani. Un’esplosione di energia e colori che farebbe scappare a gambe levate chi considera il jazz musica da sottofondo, chi è affogato nel Real Book senza uscirne più: un rituale pagano, un inno alla gioia nei tempi dell’Apocalisse, un’orgia di timbri, dinamiche, movimento, una mezz’ora abbondante di purissimo e fantastico divertimento, per un musicista che armeggia nella fucina dei suoni con quell’approccio libero e fisico tipico anche ad esempio di Mats Gustafsson e della sua Fire! Orchestra.

Favolosi i momenti dove entra l’elettronica a rendere ancora più straniante il tutto, creando qualcosa che ha termini di paragone forse solo nel delirio lucido ed efferato di certe cose di Otomo Yoshihide o in certe pagine del catalogo delle Rér di Chris Cutler, grazie all’efficacissimo binomio con una fisarmonica che dà perfetti colori da folk alieno. Dopo – puf! – come in un trucco da illusionista, si cambia all’istante scenario: ora è la tuba a mettere in campo le sue minacciose, sparse truppe, il silenzio fa ancora più paura del caos, gli altri strumenti circondano l’ascoltatore preda come farebbe uno squalo, siamo nell’oceano dell’indefinibile: si apparecchia un cielo che promette una pioggia che non mantiene, l’esplosione prevista non arriva, fortunatamente, non vi è nulla di scontato in questa esplorazione di mezz’ora scarsa, che andrebbe suonata a volume fortissimo dalla finestra di casa mia, ora, nel tranquillo e fottuto sabato del villaggio, andrebbe suonata a tutto volume ai semafori, nelle fabbriche, negli stadi. Questa è la vera heavy music dei giorni nostri, lo pensavo anche quando ho visto gli Art Ensemble mille anni fa a Piacenza, in una loro incarnazione decisamente più tosta della pallida e sbiadita copia di qualche tempo fa a Reggio Emilia, e spesso lo penso ancora.

Il disco finisce con un sommesso incedere d’archi, sul bordo del silenzio. A dimostrazione che questi musicisti sono capaci di pestare come dei fabbri, ma hanno un grande controllo ed una grande sensibilità, ed un’apertura mentale totale che rende impossibile annoiarsi durante l’ascolto. Ed allora, concedetevi questo viaggio (per quanto mi riguarda, spero di poterli intercettare presto dal vivo, questo disco e quello prima mi fanno immaginare davvero i fuochi d’artificio).

More fun, please!