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EVAN PARKER AND DISSONANZEN, Linger Like Joy In Memory

EVAN PARKER AND DISSONANZEN, Linger Like Joy In Memory

Soffermarsi. Su un dettaglio nascosto e imprescindibile. Sull’origine dell’universo, annidata in un remotissimo silenzio. Soffermarsi. Ascoltare il rumore della stanza, farsi assalire dal fascino della deriva, del disadorno, di ciò che non ha nulla da dire (John Cage: “There is nothing to say. And I’m sayin’it.”). Poi ripetere l’operazione, perché, come diceva Steve Lacy: “Life’s always the same, always the same, always the same. Then it changes”. Soffermarsi come fa la gioia nella memoria. Lasciando ferite, orme, ombre. Un disco imprendibile e prezioso, questo Linger Like Joy In Memory, a nome Evan Parker And Dissonanzen. L’ensemble napoletano, che nel 2018 ha compiuto 25 anni di attività, incontra l’inconfondibile sassofono soprano di Bristol, già titolare di uno dei dischi dell’anno scorso per il sottoscritto, e il risultato sono sei tracce mesmeriche e ispide, liriche e nitide nel loro enigmatico sviluppo. L’ottetto comprende flauto (Tommaso Rossi), tromba e flicorno (Marco Sannini), chitarra (Marco Cappelli), pianoforte (Ciro Longobardi), synth e samples (Francesco D’Errico, anche deus ex machina dell’etichetta che pubblica il lavoro), violoncello (Marco Vitali),  contrabbasso (Renato, qui ribattezzato Ron, Grieco, noto da queste parti per questo disco) e batteria e percussioni (Stefano Di Costanzo). La materia sonora è sfuggente, densa e lievissima: fughe, agguati, appostamenti, segnali, labirinti, pendii scoscesi, veglia, minaccia; quasi un’ora di dialoghi in una lingua intraducibile e familiare, come dei geroglifici che non sappiamo decifrare ma in qualche maniera sentiamo ad un livello più profondo. Quasi come un idioma pre-alfabetico, preistorico, che non ha bisogno dei secoli di costruzioni culturali che gravano sulle nostre spalle, della necessità di trovare una direzione, un senso. Questo è solo il glorioso mistero del suono nel suo dipanarsi. Arriva in posti dove le parole non possono arrivare, questa è la sua poesia, questa la sua potenza. Carillon che suonano da un altrove intimo e lontanissimo, rarefazioni, rivelazioni. Cinque movimenti capaci di rivelare una faccia diversa a ogni ascolto; musica che non lascia una traccia definita, definibile, rappresentabile, dopo che la si è ascoltata; ma proprio un’orma, come un latte di sogno, o una bava di gioia e di dolore di vita, un fossile vivente, un frammento di pulsante memoria. Perché farlo in questi tempi bulimici e sciocchi è rivoluzionario. Ascoltare e rinunciare al pigolio dell’io. Farsi allagare dalla musica. Soffermarsi su un dettaglio nascosto e imprescindibile. Sull’origine dell’universo, annidata in un remotissimo silenzio. Suonare non è forse un tentativo di tornare in qualche modo a quell’inizio, o di sbirciare la fine? Soffermarsi. Poi ripetere l’operazione. Qualcuno è già stato qui. Ascoltare il rumore della stanza, farsi assalire dal fascino della deriva, del disadorno, di ciò che non ha nulla, e quindi moltissimo da dire.