ETTORE BRANCÉ, L’Unico Pasto È Un Pasto Cannibale
L’attacco, in un brano di otto minuti atmosferico, ci invita a una sorta di soggettiva su un’orbita, massa che lentamente si sposta seguendo un itinerario e una personale forza di gravità. Ettore Brancé in realtà rivela con questo album un percorso ben più carnale, quello del carnivoro occidentale, l’ipotesi di chi non guarda in faccia a nessuno nutrendosi di ciò che trova sul suo cammino. Così facendo quel che sembrava un incedere naturale è forse il futto di una morale e di una socialità sopita se non del tutto assente, all’insegna di un barbaro annichilimento dell’altro.
Il suono, atmosferico, potrebbe essere una crasi antica fra grandi energie tedesche, quelle di Popol Vuh e Tangerine Dream, all’insegna di un vortice buio, lento ed imperterrito. L’arrivo del pianoforte ci mostra un fianco romantico, solenne e disperato, in una “Per Il Profumo Non Si Chiede Scusa” che mette in scena un nuovo mazzo di carte, nuova energia che viene messa in circolo per il nutrimento. Un disco intenso, travagliato e pregno di umori, che alterna stati ombrosi a sprazzi di tenue luminosità in virtù del suo continuo ruotare. Un disco in un certo senso zen, nel senso di visione, contemplazione, scoperta. Questi gradi, di norma fonte di coscienza, possono presentarci un brutto conto, proprio come quello che John Nada riconosce inforcati gli occhiali neri in “They Live” di John Carpenter. Sono fra noi, lo sono stati e lo saranno, come il citato Issei Sagawa nella conclusiva “Finale, Issei”.
Un disco, un monito in sole 15 copie dedicate al padre di Ettore, scomparso lo scorso anno. Orbite, quelle dei pianeti nello spazio, dei laser sopra ai cd, degli umani sul mondo.