Esoteros: Ultratronics di Ryoji Ikeda
La perfezione in quanto concetto assoluto non riguarda l’umano, e dunque tantomeno il frutto delle sue pratiche artistiche. Soltanto l’oggettivazione dei grezzi dati informatici, fintanto che si riferiscono unicamente a loro stessi, può pretendere di avvicinarla secondo i medesimi principi della matematica e della geometria in astratto.
Dal radicale riduzionismo degli esordi alle più recenti installazioni audiovisive, l’estetica di Ryoji Ikeda non ha mai ammesso eccezioni a un rigore formale i cui risvolti (post?)musicali appaiono quasi accidentali, tale è la perizia tecnica con cui i suoi tableaux digitali vengono assemblati e rifiniti, intrisi di innumerevoli dettagli che in nessun caso ne intaccano l’equilibrio – prossimo, per l’appunto, all’inumano.
Nell’opera straordinariamente coerente del pioniere glitch giapponese, il carattere “sottrattivo” delle sue componenti essenziali si è nel tempo sviluppato di pari passo con un’indole ipertrofica e totalizzante, speculare ai vertiginosi flussi di dati che innervano la civiltà delle macchine in ogni suo aspetto, a tal punto da invertire i rapporti di dipendenza tra l’essere senziente e la sua controparte tecnologica. Di tutto ciò Ultratronics, così come i suoi precedenti “modelli”, non si occupa in termini espliciti bensì intrinseci, ovverosia sembra presupporre e inglobare nella propria struttura ideologico-estetica l’intero portato di conoscenza che i calcolatori vanno assorbendo senza sosta sin dagli albori dell’informatica.
La meraviglia del prodigio architettonico risulta allora inscindibile dall’orrore distopico, nel flagrante manifestarsi di ciò che abbiamo prodotto sotto le sembianze di uno schermo sonoro in continuo fermento, fiero di un’autosufficienza (anti)espressiva che ormai sembra addirittura farsi beffe del nostro linguaggio, dei numeri ai quali abbiamo attribuito lessemi e significati ulteriori, superflui nel dominio della fredda aritmetica – il cui etimo, non a caso, coincide con quello di ritmo. Per rimanere in tema e dirla sinteticamente con un’equazione, i Kraftwerk stanno a 1984 come Ikeda sta al presente.
È una traiettoria lungo la quale non si danno flessioni negative, né tantomeno passi indietro, poiché l’orizzonte prevedibile è unicamente quello dell’infinito. Se tale logica si applicasse alla limitatezza dell’umano, l’esito finale non potrebbe essere altro che il collasso: uno spettro che aleggia nel modo in cui percepiamo l’estremismo di ogni segmento di Ultratronics, nelle linee rette tracciate dalle frequenze più elevate come nelle frastornanti accumulazioni di bit in forme organiche e soverchianti.
La visione d’insieme che il patron d’etichetta Alva Noto poté raggiungere solo con la trilogia ‘uni’ (2008-2018) – blueprint di un’ipotetica catalogazione dell’universo – continua invece a evolvere e rafforzarsi ad ogni iterazione del codex di Ryoji Ikeda, la cui impossibilità di compiersi in maniera definitiva non gli impedisce di segnare sempre lo stato dell’arte che da quasi trent’anni rappresenta con stoico rifiuto di qualsivoglia compromesso.
Questo post andrà on line domani su Esoteros di Michele Palozzo.
Critico e curatore musicale indipendente, scrive recensioni e articoli dal 2009. Ha collaborato a lungo con la webzine Ondarock, per la quale ha inoltre coordinato la sezione ‘altrisuoni’. È co-fondatore e direttore artistico del progetto culturale Plunge, dedicato alla promozione delle più interessanti espressioni della musica elettronica e di ricerca contemporanea, attivo principalmente a Milano.