ERNESTO TOMASINI

Artista di caratura internazionale, Ernesto Tomasini ha un curriculum impressionante (è performer vocale, attore, doppiatore, insegnante…), tra le mille cose fatte ha pure tenuto una masterclass alla Royal Academy Of Dramatic Art di Londra… Continua a conservare intatta la voglia di comunicare con chi gli chiede collaborazioni e interviste, potrebbe addirittura permettersi di fare il contrario ma tendo a pensare che non sia proprio nella sua natura. Sapere poi che un personaggio piuttosto riservato come Shackleton si sia preso la briga di farci un disco avvalora la mia tesi sulle qualità umane, oltre che artistiche, dell’autore siciliano. La recente uscita di Devotional Songs è stata la scusa per contattarlo e farci dire di quanto sia stato magico a suo modo questo connubio (e di approfondire un minimo la sua conoscenza). Resta obiettivamente difficile fare finta di non notare le peculiarità stilistiche di un album a suo modo singolare.

Ammetto che quando ho saputo della tua collaborazione con Sam Shackleton sono quasi saltato dalla sedia, mi sono detto: wow! Poi però, quando ho letto per bene il tuo curriculum, mi sono ricomposto, ho potuto constatare che di collaborazioni prestigiose ne avevi fatte tante. Ritieni dunque fondamentale esprimerti insieme ad altri artisti che stimi? È un modo come un altro per trovare nuove vie espressive?

Ernesto Tomasini: Non c’è un pensiero dietro. Se Peter Christopherson o Lindsay Kemp vogliono lavorare con te non dici di no. Poi ci sono collaborazioni che nascono da un’amicizia: penso a Fabrizio Modonese Palumbo, o Ron Athey. Quelle con Marc Almond continuano a succedere per motivi disparati. Quella con Othon era scritta nelle stelle. Con Julia Kent ci si ritrovava così spesso nella stessa line up che speravamo di poter lavorare insieme. Finalmente, due anni fa, ho cantato le bellissime canzoni che ha scritto per me in una commedia musicale. Non cerco vie espressive. Io vivo.

Raccontami di come vi siete interrogati tu e Shackleton sull’impronta da dare a “Devotional Songs”, credo che il titolo voglia dire più di qualcosa. Io l’ho trovato un album dalle tinte psichedeliche e tribali, perfino prog-rock in alcuni frangenti, quei lunghi passaggi strumentali lo lasciano intendere…

Shackleton è un genio puro. Accoppia al talento innato la perizia del perfezionista. Non riposa fino a quando persino un dettaglio secondario non sia perfetto. Lavorare con lui è entusiasmante. Non so dire nulla di tecnico sul disco, perché è uno di quei casi in cui la tecnica è stata sublimata dalla poesia. Forse ci siamo interrogati, forse abbiamo soltanto respirato insieme… È un progetto molto personale per Sam… anzi due, perché il live è abbastanza diverso dal disco. Una delle più belle esperienze della mia vita, artisticamente e umanamente.

C’è un artista (o band) col quale vorresti confrontarti in futuro?

Vorrei fare una cover elektro-punk di “No More Tears (Enough Is Enough)” in dialetto siciliano, con Petra Flurr (la Flurr è mia conterranea nonostante sia cresciuta in Germania).
Con Armen Ra stavamo realizzando un progetto insieme qualche anno fa in Spagna, ma lungo la via il budget insufficiente ci ha bloccati. Mi piacerebbe un giorno poter ricominciare.
So che è impossibile, ma vorrei cantare con Angela Lansbury. A 91 anni sta per cominciare un tour americano e canta ancora come una fata.

Facciamo un passo indietro: vieni dalla Sicilia e te ne vai subito in giro per il mondo, incominci molto presto, da ragazzino, una cosa non molto italiana converrai… Cosa si prova a stare tanto lontani dalla propria terra? Mi rendo conto che è una domanda da italiano… E cosa si prova soprattutto, dopo esperienze tutte molto diverse tra loro, a tornare in un certo senso “affermato” e “vincitore”? Alludo agli elogi ed ai premi che ti sono stati tributati di recente anche nella tua città natale, Palermo.

Da bambino immaginavo sempre di essere altrove, per cui quando, da teenager, sono approdato a Hollywood e negli altri luoghi che sognavo, la felicità mi ha travolto senza lasciare spazio ad altri sentimenti.
Non sono un campanilista, non credo nelle patrie e nelle fanfare. I riconoscimenti di cui parli sono stati fonte di contentezza, ma per motivi molto personali che non immagineresti.

Quanto c’è di palermitano nel tuo modo di essere e di esprimerti, artisticamente parlando? Se penso a quella città mi vengono in mente (non so bene perché…) le Catacombe dei Cappuccini (ci sono stato di persona…), il cinema di Ciprì e Maresco, il film “Angela” di Roberta Torre, l’Opera dei Pupi, tutte cose allegre insomma… Quanto invece ti senti apolide? 

Io mi sento straordinariamente apolide ma… dalle radici non si scappa. Da piccolo, con la mente trasformavo il mondo circostante per poterlo sopportare. I pupi e i Cappuccini sono fra le poche manifestazioni locali che non sentivo di dover deformare. Ciprì e Maresco (anche se non li vedo da tanto) sono miei amici e condivido il loro cinismo filmico. In Roberta Torre – con la quale ho lavorato (sono stato la sua “Aida” in teatro) – ho trovato una “anima artistica gemella”. Ti sono venuti in mente esempi molto azzeccati.

Avrai certamente saputo del recente cambio di nome di Antony Hegarty, ora si chiama Anohni ed ha pure modificato in parte indirizzo musicale (da una forma piuttosto classica di rock-song a pezzi più elettronici e politicizzati), nonché collaboratori, dal suo mentore David Tibet al tandem Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never)/Hudson Mohawke. Credi sia una sorta di metafora della necessità di cambiare di continuo? In fondo anche tu sei uno che cambia continuamente, che non sta mai fermo. Ti ritieni un artista indipendente?

Sono indipendentissimo perché già da diversi anni sono al di fuori dei giochi di agenti e case di produzione. La mia manager, la leggendaria Klarita Kaparte Pandolfi Carr, è prima di tutto un’amica. Faccio quello che voglio fare e accetto le proposte di chi mi piace.
Credo che i cambiamenti di Anohni riflettano un suo mutamento più profondo e non c’è dubbio ch’io abbia scelto la professione dell’attore per tenere a bada un acutissimo disturbo dissociativo dell’identità.

Come vedi l’Italia da Londra, la città dove vivi da più di vent’anni ormai? La trovi cambiata molto?

L’Italia, come del resto gran parte dell’Europa, è oramai in uscita. Ha avuto il suo millennio di splendore, adesso si avvia verso la sua unica condizione possibile: il rudere in cartolina, il museo diroccato, l’operetta messa in scena in periferia. Il processo è già iniziato e – nonostante politici e intellettuali locali starnazzino per far finta di essere ancora vivi – il puzzo di carogna si impone fra le strade delle nostre risibili (e non più ridenti) cittadine.

Conosci una musicista che si chiama Elysia Crampton? Su Wikipedia viene descritta cosi: “… is a Bolivian-American transwoman and experimental electronic musician. Her work is known for exploring Latinx culture, queer identity and its historic roots, subversion of macho cultural tropes, and frequent utilization of samples of pop music”. Ha fatto un paio di dischi di elettronica (influenzata anche dal grime) dove mescola in modo piuttosto aggressivo stili diversi tra loro. In passato c’è stato Klaus Nomi, poi Genesis P-Orridge, Baby Dee, Terre Thaemlitz; più di recente appunto Antony, John Grant, Mykki Blanco. Apprezzi qualcuno di questi artisti che ti ho citato? Oh, poi magari preferisci ascoltare per conto tuo Roberto Murolo o Nino D’Angelo e va bene lo stesso, eh?!

Sono un appassionato di neo melodica napoletana, quindi sicuramente so dirti molto di più su Nino D’Angelo che sulla Crampton. Non ascolto musica (per diletto) da circa dieci anni, quindi, in generale, ne so poco e niente ma, per fortuna, i musicisti che menzioni sono amici, o amici di amici, quindi conosco bene la loro produzione e non solo. Sono disgustosamente pettegolo e in privato ti intratterrei per ore con aneddoti pruriginosi. Proprio in questi giorni sto lavorando con Man Parrish che, fra le tante grandi cose, è stato produttore e amico di Klaus Nomi, quindi anche sull’unico morto della tua lista avrei da raccontare. Manny è un’enciclopedia vivente della musica degli ultimi quarant’anni. “The Godfather of Electronic Music”, ha lavorato con tutti, da Michael Jackson ai Village People (e Madonna è stata la sua opening act). Ma sto divagando…

Mi piacciono gli artisti che menzioni, per ragioni diverse, e a Baby Dee voglio molto bene. Ci conosciamo da tantissimo tempo, da quando non facevamo ancora musica ed eravamo nel circuito del vaudeville internazionale. Poi ci siamo persi di vista (internet non c’era ancora). Ci siamo ritrovati dopo una decina d’anni, per puro caso, a Barcellona, quando entrambi stavamo cominciando una carriera musicale. Da allora siamo stati spesso in tournée insieme e, tre anni fa, ha voluto che cantassi al suo matrimonio. Il nostro essere teatranti – che tanto si riflette in tutto quel che facciamo – ci lega in maniera speciale. Dee è un’artista vera, di quelle che non sai dove finisce la persona e dove comincia la chanteuse.

Cosa ti piaceva cantare da piccolo?

L’intera discografia di Julie Andrews. Colpivo quei Si Bemolle alla fine di “Spoonful Of Sugar”, “Do Re Mi” e “The Saga Of Jenny” con precisione e disinvoltura. Ero un fenomeno da baraccone, peccato non ci fosse il baraccone ad accogliermi; quello è arrivato dopo.

Farete qualche altra data per proporre “Devotional Songs” per intero? Ho scoperto che siete stati al Dekmantel Festival di Amsterdam ad agosto. Sarebbe molto bello vedervi dal vivo, magari in teatro, perché no?

Siamo stati anche nei musei di arte moderna a Madrid e Barcellona e all’Arma17 a Mosca. Sono d’accordissimo con te, il progetto sarebbe perfetto per sale da concerto e teatri. Speriamo di trovare un quadrifoglio!