ERLEND APNESETH, Fragmentarium
L’espressione discografica, così come l’evoluzione in arte prosegue a passo regolare ed intenso nel caso di Erlend Apneseth, che rinnovando del tutto il cast (rispetto al di poco precedente Salika, Molika) vi arruola tra gli altri figure in affermazione quali la tastierista Anja Lauvdal (Moskus, Skadedyr) e lo sperimentatore Stein Urheim (titolare di serialità propria) nel comporre una line-up di assi funzionali all’esito di un soundscape ulteriormente vivacizzato.
Possente andatura dopo il macchinoso avvio della corposa “Gangar”, che sulle prime, e forse un po’ ironicamente, sembra rifare il verso all’angosciante tema di “Jaws” assumendo quindi il corpo di una implacabile jam connotata da spessori rockeggianti (in buona parte grazie alla veemente batteria di Hans Hulbækmo, il tutto entro una scultorea ripresa sonora).
Calo delle tensioni nell’ambientazione semi-onirica di “Du Fallande Jord”, scandita quindi da una lenta e timpanica ritmica, e terreno di gioco di più netta visibilità del solismo del leader, perito alfiere dell’antico violino simpatetico Hardanger, che guida la regia entro un passaggio destrutturato e violento, che prelude alle lineari figurazioni dell’arco. Climi ulteriormente rarefatti introducono l’eponima “Fragmentarium”, che guadagna in poche mosse elastico corpo pulsante, fungendo da battito cardiaco centrale nella fisiologia dell’album, ancora connotato da salti atmosferici, come nella densa e capricciosa impro della spiritata “Gruvene”, che riprende la matrice magmatica e caotica già presente nell’introduzione e condivide con buona parte dei materiali del disco tratti di arcaica cerimonialità, toccante l’anticata nobiltà espositiva della duettante “No, Etterpå”, transitiva verso l’argentea e nebulosa dimensione cosmica di “Det Mørknar”, che precede l’epilogo nella strutturata e solenne “Omkved”, le cui forti contaminazioni non eclissano gli idiomi identitari della band.
Questi ultimi s’installano abbastanza leggibili quali elementi germinativi del sound e della visionarietà dell’ensemble, che qui segna un forte punto a favore del vivente parco delle meraviglie della maison Hubro, spesso centrifugo rispetto alle basilari connotazioni di tratto scandinavo, ma che entro questa label gioca con estrema libertà d’espressione e segno, in virtù di un parterre dinamicamente differenziato.
Rispetto dunque alla precedente avventura sonora, il passaggio testimoniale della carismatica e propulsiva personalità della guest-star Frode Haltli non nuoce alla resa complessiva del nuovo lavoro, vivente di istanze ulteriormente immaginative e cui giova l’inscenare crude energie primordiali (citando anche la primordialità del pop, tali anche le connotazioni prog e psych o un’ebbra declinazione bluesy).
Apneseth e i suoi così rilasciano una sequenza sonora seduttiva e di consistente peso specifico, segnata da tematiche nucleari ed espressione poetica cui non difettano concretezza e scrittura di forte tratto, rilevandosi l’inattesa (a tratti frastornante) ricchezza spettacolare di una musicalità che in parte si rigenera entro una forma ulteriormente esplorativa e pétillante.