ERIC CHENAUX TRIO, Delights Of My Life

Non so quanta familiarità abbiate con Eric Chenaux, ma forse né la mia né la vostra saranno mai abbastanza per comprenderlo del tutto: la sostanza del suo scrivere rimane inafferrabile e, dopo numerosi dischi, non ci siamo fino in fondo abituati al suo linguaggio.
Per quanto mi riguarda, è una sensazione bellissima.
Sarà la sua impronta compositiva, che lo porta a stirare i suoni e a organizzarli in strutture di cui spesso si perde la forma; sarà che, allungandosi, tutto rallenta e ci spinge verso un’attenzione fluttuante che ci fa inseguire, col pensiero, le singole note di un solo, convincendoci a osservarle mentre cercano la strada.
Sarà che, quando lo ascoltiamo, intorno a noi volano molecole di crooning, di soul, di jazz e la sostanza afferrabile, reale, ci sfugge di continuo: solo la voce – e solo a volte – riesce a riportarci, quasi, a terra.
In Delights Of My Life questo processo, già visibile nei dischi precedenti, si palesa con una particolare, piacevole, intensità grazie all’interplay fluido e attento fra i musicisti, che cesella le già ottime intuizioni di partenza. In trio, infatti, lo stile già molto riconoscibile di Chenaux prende più respiro grazie a Ryan Driver al Wurlitzer, suo collaboratore di lunghissima data, e a Philippe Melanson (già con U.S Girls, Bernice e Joseph Shabason) alle percussioni elettroniche.
È raro ascoltare un’opera così direzionata nel barcollare, in cui sia così visibile il pensiero che ha portato alle stesure finali dei pezzi, tanto simili a vecchie ballad jazz suonate al rallentatore, cantate in fase R.E.M., lasciate dipanare senza cercare troppo di imbrigliarle, affidandosi consapevoli al processo.
Già nella traccia di apertura “This Ain’t Life”, i cori (una novità importante, arrivata con il trio) e il dialogo lento fra gli strumenti, che si diluisce nei soli, ci danno un assaggio dello straniamento a venire, ed è solo con “These Things” che i pianeti si riallineano. Dopo quasi venti minuti di disco in cui il trio ha giocato a sparpagliarsi, a smembrare le melodie, in questa traccia a un certo punto si ricompone e segue la voce, aiutandoci con uno stile di ascolto più orientato al testo e lasciandoci liberi di perderci fra le parole, oltre che fra le note. La rincorsa ricomincia subito nella traccia successiva e finisce solo all’arrivo della title-track, un lungo strumentale in cui il cantato arriva dopo una elaborata, lunghissima introduzione, chiudendo il disco e facendoci venire voglia di ripartire da capo, per comprenderlo meglio.
Sono sicura che se lo osservassimo da molto vicino, Delights Of My Life ci apparirebbe come un oggetto stratificato, un minerale da studiare seguendone i colorati movimenti delle faglie: l’elettroacustica vivida, liquida, di Melanson e le armonie strutturanti di Drive, la voce di Chenaux, morbida, che si alterna all’altra voce, quella della chitarra, a tratti quasi un canto robotico da futuro lontano, ci restituiscono un disco da ascoltare e riascoltare, perché, alla nostra attenzione, ondivaga, sembrerà sempre diverso.