ENZO ROCCO / FERDINANDO FARAÒ, Fields

Uno swing incalzante e aereo e poi una chitarra lieve e che sparge stranianti semenze che sanno di country, di bluegrass, di folk involontario. Si misurano nelle terre di nessuno dell’improvvisazione jazz e secondo la classica formula del duo Enzo Rocco (in passato nei TubaTrio con Giancarlo Schiaffini e pure con Lol Coxhill, oggi in duo con Carlo Actis Dato e, tra gli altri, e da lungo tempo, anche con il pianista Veryan Weston) e Ferdinando Faraò, batterista dal curriculum sterminato che nel 2010 ha dato vita alla bellissima esperienza della Artchipel Orchestra, di cui è arrangiatore, compositore e direttore (un largo ensemble che ha meritatamente vinto il premio come migliore band dell’anno nel 2012 e di cui consiglio senz’altro di recuperare l’ottimo Ferdinando Faraò & Artchipel Orchestra Play Soft Machine, del 2014).

Musicisti dunque più che rodati per un incontro deciso in modo del tutto estemporaneo, dopo aver incrociato le loro strade varie volte in passato. E il disco rivela senz’altro la grande abilità dei due nel muoversi tra schegge quasi rock (il primo pezzo, “Splinters”, sarò matto, ma con quella chitarra ossuta e beffarda mi ha fatto venire in mente i Meat Puppets), momenti più classicamente cool (“Stains”, con la chitarra a levare la polvere da spigoli morbidi che conosciamo già, con un sound molto smooth che poi però si sa increspare e non naufraga nel già sentito), opportune astrazioni (“Flout-off”, con un flauto a portarci in un’Africa possibile e impossibile, mentre la chitarra si perde in vaghissime geometrie). Più classicamente free “Fifty-Fifty” (un riuscito ma non sorprendente gioco di call & response), accattivante il clima interlocutorio e circospetto di “The Glance”. Sempre pulito il tocco della sei corde, che abbandona di rado (e questo per il gusto di chi scrive forse a volte è un peccato, a dire il vero) il timone di un discorso narrativo, laddove forse avrebbe giovato all’insieme un approccio ancora più metaforico e astratto. Perché quando accade, come in certi momenti di “Golep” o in “The Bow”, dove Nels Cline non pare così lontano, le cose funzionano a meraviglia. Senz’altro notevole la capacità di Rocco di non appoggiare mai le dita in posti banali della sua tastiera, così come la capacità di Faraò di dialogare con leggerezza calviniana e groove sempre puntuale: chiudono il disco la cantabilità solare di “A(free)ka” e i meccanismi (poco) svizzeri di “Les Cloches”, tra languori quasi smooth (nel gratuito gioco dei rimandi a me ascoltando questo disco sono venuti in mente pure Jim Hall e Charlie Hunter) e severità dodecafonica, che indicano un’interessante possibilità di sviluppo. In certi momenti, infatti, un ben accetto disordine pare prendere il sopravvento, la chitarra balbetta e incespica, prendendo – come ad esempio negli ultimi trenta, enigmatici secondi – improbabili ed impervi sentieri che sanno di minimalismo rock, come un Glenn Branca schizofrenico, per un duo che saremmo molto curiosi di poter vedere dal vivo e che intanto ha sfornato un altro disco fuori dagli schemi per la sempre coraggiosa e meritevole di grande attenzione Setola di Maiale.

Tracklist

01. Splinters
02. Stains
03. Flout-Off
04. Ferdinand Solaire
05. Mallets
06. Fifty-Fifty
07. The Glance
08. Golep
09. The Bow
10. A(free)ka
11. Les Cloches