ENTRY, Detriment
Gli Entry si sono formati a Los Angeles come duo, ad opera della cantante Sara G e di Clayton Stevens dei Touché Amoré, ai quali si sono aggiunti in seguito Sean Sakamoto (Sheer) al basso e Chris Dwyer alla batteria, questi ultimi attivi anche come ingegneri del suono. Le radici della band affondano nella prima scena hardcore e in quella crust, dalle quali prendono ispirazione per creare una miscela sonora calata nell’odierno panorama estremo, con sprazzi di ferocia, appena intuibili linee melodiche che corrono sottotraccia e parti più cadenzate che permettono all’ascoltatore di riprendere fiato nel mezzo dei furiosi assalti “in your face”.
L’album è il frutto di quell’attitudine allo scontro che sembra tornata con prepotenza in auge da quando gli States si sono trovati in mano ad un presidente incapace di gestire le nuove istanze sociali e i cambiamenti che l’umanità sta attraversando. Come già più volte evidenziato, l’unico effetto positivo di questo ritorno ad un sistema sempre più sbilanciato in cui la fanno da padroni leader legati ad una mentalità machista, razzista e guerrafondaia e multinazionali sempre più spietate, è che la scena hardcore sembra aver riacquistato la propria forza dirompente, segnata dalla voglia di reagire con una ancor più marcata violenza sonora e un rinnovato intento antagonista.
La peculiarità che ci fa apprezzare gli Entry, oltre ad un suono ad hoc che tradisce la presenza di “professionisti” e alla già citata capacità di fondere il proprio background, fatto di Minor Threat, Black Flag e Discharge, con l’evoluzione più moderna (seppur ormai storicizzata) di nomi quali Converge e Tragedy, è un blend di spunti differenti piegati ad una personalità marcata che dona coesione e potenza alla formazione losangelina. Il risultato è un disco a fuoco e privo di momenti fiacchi, che farà la gioia degli amanti delle derive più estreme della scena hardcore attuale ma che ben potrebbe intrigare anche qualche fan della vecchia scuola con ancora abbastanza curiosità per apprezzarne un’evoluzione che ne modernizza, ma non ne snatura, il nucleo fondante.
In fondo, il tutto centra il bersaglio anche perché non pretende di protrarre la propria offensiva oltre il quarto d’ora (difficilmente i brani superano i due minuti di durata) e, per questo, come in un’incursione da guerriglia, colpisce e si ritira prima di aver perso l’effetto sorpresa, una caratteristica che non dovrebbe mai sottovalutata quando si adotta come modello la scena hardcore con le sue regole d’ingaggio. A noi va benissimo così e di sicuro non abbiamo di che lamentarci.