ENSLAVED, Utgard

Ho atteso Utgard con trepidazione, come ogni altra uscita degli Enslaved.

Li seguo avidamente sin dagli esordi, sono una delle mie band preferite, molto probabilmente la mia band preferita in assoluto, specie per la loro capacità di aprire, sviluppare e chiudere micro-cicli tematici e stilistici all’interno di una discografia che, alle mie orecchie, è sempre rimasta coerente attraverso mille cambiamenti.

Aprire a questo punto una nuova fase evolutiva era per loro una mossa naturale e necessaria, visti anche, negli ultimi anni, gli abbandoni di Herbrand Larsen (tastiere, voce) dopo In Times e di Cato Bekkevold (batteria) dopo il tour di E. Avendo perso due colonne portanti del sound che li aveva caratterizzati per oltre un decennio, Ivar Bjørnson e Grutle Kjellson hanno preferito rimpolpare i ranghi prima con un elemento giovane e fresco, il tastierista dei Seven Impale, Håkon Vinje, e poi con il loro fido produttore Iver Sandøy dietro le pelli. Scelte, a prima vista, quasi scontate, sagge, che hanno permesso ai norvegesi una certa continuità nell’immediato, senza per forza rischiare con svolte troppo brusche. Tant’è che il loro album precedente, pur con qualche decisa strizzata d’occhio ad elementi prog-rock settantiani già da tempo nel loro vocabolario, era apparso come un inizio di transizione: rimasto in linea con le vecchie produzioni, era al tempo stesso quasi riuscito nell’arduo compito di levare peso all’assenza della voce di Larsen, divenuta negli anni un contraltare perfetto al growl di Kjellson. Con Utgard, però, bisognava alzare il tiro. Non si poteva più far leva sull’eredità degli ultimi lavori, che avevano segnato un arco progressivo all’interno di una matrice estrema mai rinnegata; era necessario cambiare pelle un’altra volta, intraprendere un nuovo corso, come da tradizione.

Dopo aver consumato le anteprime “Homebound”, “Jettegryta” e “Urjotun”, pensavo che la scrittura degli Enslaved avesse trovato un nuovo equilibrio, forte specialmente dell’apporto creativo di Sandøy, tanto negli arrangiamenti di batteria quanto in quelli vocali. Canzoni brevi, incisive, ma non per questo banali, capaci di conservare il gusto della contaminazione e attingere, quando necessario, all’attitudine inveterata di sfornare riff estremi, glaciali. Tre brani eterogenei nelle soluzioni, ma allo stesso tempo legati da alcuni elementi portanti solidi, tanto da farmi ben sperare nella visione complessiva.

Purtroppo, dopo svariati, quasi ossessivi ascolti, Utgard mi ha lasciato con l’amaro in bocca.

I tre singoli rimangono istantanee felici di un’opera che, presa nell’insieme, non mi ha convinto a dovere; tralasciando l’esigenza e le aspettative “da fan”, le altre canzoni dell’album non mi hanno meravigliato, come mi era invece sempre successo con le nuove uscite degli Enslaved. La tendenza è sì quella di cercare composizioni più concise, ma il prezzo pagato è caro; dappertutto è presente una ricerca metodica dei riff catchy, giustapposti e ripetuti in forma canzone o, addirittura, in formula A-B-A-B, come mai era accaduto in passato. Le canzoni sono coerenti nell’economia della tracklist, ma rischiano anche di risultare banali e piatte, gettando alle ortiche idee eccellenti che vengono troncate come se quasi ci fosse fretta di chiudere il discorso e passare al pezzo successivo. Ho avuto questa fastidiosa sensazione di non-finito con l’opener “Fires In The Dark”, incespicante nella partenza, con una sorta di doppio preludio che lancia dei temi interessanti (dai quali il gruppo, anche solo qualche anno fa, avrebbe tratto tutt’altro sviluppo), per poi prendere una scorciatoia poco ispirata, fino al bel giro di chiusura che risulta, così, isolato e scollato dal resto. “Sequence” è una canzone debole e anonima, lontanissima dalle sonorità del gruppo, che propone soluzioni poco ispirate e riempitive fino ad una sezione pulita magistrale che potrebbe essere uscita dalla testa di Gilmour o Waters, inspiegabilmente chiusa, però, con un reprise del primo, mediocre riff quando avrebbe invece meritato altro. Saltando il filler “Utgarđr”, “Flight Of Thought And Memory” è insieme ai tre singoli uno degli episodi più convincenti ed estremi del lotto, nonostante patisca la stessa fretta di concludere che affligge la prima traccia, mentre la successiva “Storms Of Utgard” esordisce bene nel suo porsi maestosa e rocciosa, ma risulta ancora una volta troppo poco sviluppata per essere memorabile. Chiude la tracklist “Distant Seasons”, un brano-tributo al rock progressivo che sapevo i norvegesi avrebbero potuto comporre senza problemi, volendolo, ma che, in cuor mio, non riesco ad accogliere e a digerire: troppo fuori da quanto realizzato nel corso di una carriera improntata su ricerca e originalità, troppo ingiustamente impropria se si pensa alla personalità artistica così spiccata della band, più volte rivendicata in stagioni diverse della sua storia.

Utgard è brutto? Non per forza, anzi: penso che moltissime persone lo adoreranno, perché è fruibile, immediato, quasi canticchiabile, perché alterna sfuriate black metal a elementi cristallini di stampo prog-rock. La nuova voce di Sandøy è utilizzata in maniera furba e intelligente, ha quel timbro tra il graffiante e il melodico che fa molto “festival anthem” e sicuramente renderà molto più accessibili le composizioni a chi si approccia per la prima volta alla band.

Preso di per sé, insomma, Utgard non è male.

Cosa non va, allora?

Non trovo il filo della scrittura che ha corso in precedenza attraverso quattordici album. Ci sono degli elementi troppo alieni al songwriting degli Enslaved che sviliscono le composizioni in maniera deludente e spaesante. Mi sono trovato più volte ad esclamare “Ma no! Perché?!” durante gli ascolti, mentre cercavo un senso che, in ultima analisi, ho trovato e non mi è piaciuto: gli Enslaved hanno inciso ancora una volta un disco diverso, solo che, questa volta, hanno imboccato una strada piuttosto divergente da quanto fatto sinora.

Lungi da me demonizzare le scelte, ho abbastanza malizia per vedere attraverso certe strategie e accettarle.

Semplicemente, se vi aspettavate un altro album black/prog metal sperimentale come Below The Lights, ISA, Ruun o Vertebrae, rimarrete delusi dalle melodie ruffiane e dalla fragilità di certe soluzioni di Utgard; se cercavate un’evoluzione progressiva della strada intrapresa con Axioma Ethica Odini, RITIIR, In Times ed E, rimarrete delusi dalla semplicità strutturale e dalle ripetitività di Utgard; se stavate aspettando il nuovo Vikingligr Veldi, Frost, Eld o Blodhemn… forse avete un problema con lo scorrere del tempo e dovreste accettare che gli anni Novanta sono finiti vent’anni fa.

Se poi siete come me, parafrasando Obi-Wan Kenobi, questi non sono gli Enslaved che state cercando.