ENSLAVED, E
Il nuovo album degli Enslaved, il quattordicesimo e il coronamento di ben venticinque anni di carriera, rappresenta anche un momento di transizione che va a segnare un taglio abbastanza visibile – sebbene non radicale – con il predecessore In Times. Andiamo però con ordine, partiamo dalla presenza di un cambio importante nella line-up, con Håkon Vinje che sostituisce a tastiere e voce Herbrand Larsen, a bordo sin dai tempi di Isa (2004) e partecipe di quella crescita che aveva prodotto alcuni tra gli album più importanti e acclamati della band norvegese. Già Mardraum (2000) e Monumension (2001) indicavano chiaramente la volontà di “evolversi” e raggiungere una scrittura in bilico tra mood epici, pulsioni prog e il tentativo di creare un suono attuale e immediatamente riconoscibile, ma non colpivano il bersaglio causa mancanza di un collante che ne amalgamasse la visione d’insieme, mentre con l’entrata di Larsen la band aveva trovato l’ingrediente mancante, una spezia che avrebbe portato negli anni a uno sviluppo continuo e inarrestabile tanto da fare degli Enslaved uno dei nomi di punta della scena metal. Ovvio, a questo punto, che E, alle orecchie di chi scrive, sembra per alcuni aspetti ricollegarsi proprio ai due album citati poco sopra. Non si tratta ovviamente di un brutto disco, anzi per certi versi farà la felicità di molti vecchi fan della formazione, soprattutto di chi sperava in una maggiore spinta prog/settantiana, senza precludersi un piede ancora saldo nel background estremo da cui tutto è nato. Questo soprattutto perché la tastiera di Vinje ha un forte taglio lordiano (cfr. “Sacred Horse”) che finisce per donare un mood vintage all’album e lasciare intravedere alcune esplosioni di ferocia di pura derivazione black. Si sente però che la formazione è ancora intenta a prendere le misure al nuovo arrivato o, forse, semplicemente, a elaborare un nuovo linguaggio che non ripeta, ma al contempo non trascuri, quanto espresso negli ultimi dieci e passa anni. In alcuni momenti (cfr. “Axis Of The World”) sembra di trovarsi di fronte a un bizzarro scontro/incontro tra i Voivod e Ihsahn solista, il che non è certo qualcosa di spiacevole, al contrario indica una delle possibili traiettorie future. Bisognerà ora vedere come gli autori di E sapranno trarre nuova linfa da questa alba e se riusciranno a gestire la nuova sinergia, il che rende l’album al contempo un momento di crisi (nell’accezione di momento di passaggio, ancora in bilico tra vecchio e nuovo) e una riprova del loro enorme coraggio, proprio per l’aver abbandonato un sentiero tanto esaltante quanto, probabilmente, oramai poco motivante.
Noi continuiamo ad aspettarci grandi cose dagli Enslaved, ma E non è ancora in grado di far gridare all’ennesimo capolavoro: i fan dovranno avere pazienza e fiducia, guadagnate sul campo dalla band, senza se e senza ma. (Michele Giorgi)
Scrivere della carriera degli Enslaved è una vera e propria indagine nelle pieghe della musica. Non è utile settorializzare troppo, chiudere il cerchio attorno a un determinato genere, né avrebbe senso andare a pescare alla buona nell’ambito del “metal estremo”, si correrebbe solo il rischio di apparire riduttivi e perdere così il filo delle sfumature tracciate in venticinque anni. Un’ingiustizia, per dirla in breve, che non considererebbe il tema forse più importante e riconoscibile del gruppo norvegese: la voglia di sperimentare, sempre, restando coerente con la propria poetica. All’interno di questo percorso, E si preannuncia come un punto critico, segnato da un cambiamento importante nella line up per via della dipartita del tastierista/cantante Herbrandt Larsen, che per un decennio, soprattutto grazie ai suoi ispirati arrangiamenti vocali, era diventato parte della cifra stilistica della band. Una prova importante, dunque, questa di E, che non deve più essere solo una riconferma, ma costituire l’inizio di un nuovo cammino, partendo dal passaggio di consegne nelle mani del nuovo membro Håkon Vinje, che si fa carico di un’eredità pesante, nonché della responsabilità di un futuro in continua evoluzione.
La paura di un taglio netto degli arrangiamenti vocali o, peggio ancora, dell’arrivo di un sostituto che tendesse a imitare l’impronta di Larsen, viene fugata da subito con “Storm Son”, pezzo d’apertura dell’album, forse l’emblema del nuovo sviluppo compositivo. Una struttura sontuosa, complessa ma mai cervellotica si snoda lungo gli oltre dieci minuti della canzone, alternando momenti di tensione a scioglimenti melodici e soluzioni ritmiche che scorrono con naturalezza, stupendo sempre, annoiando mai. Pare evidente come uno dei punti di forza del songwriting sia diventato la volontà di spingersi più addentro alle strutture progressive rock da sempre care a Bjørnson e Kjellson, caratterizzando lo sviluppo del brano secondo una logica che lo fa percepire come una narrazione.
Con il proseguire dell’ascolto, si può apprezzare la persistenza dell’elemento squisitamente metal che non manca mai di ricordare le origini degli Enslaved. Le sonorità del riffing portante di “At The Mouth Of The River” e “Sacred Horse” riportano alla memoria le esperienze di Mardraum e Monumension, quando l’impronta black metal era ancora sensibile, tuttavia, non si tratta di un tuffo nel passato, né di un’operazione nostalgica: la maturità artistica e la raffinatezza delle composizioni permettono di risolvere le idee più ruvide e dirette con un uso sapiente di elementi ritmici, arrangiamenti vocali e synth. In questi frangenti, forse, traspare di più l’esperienza di Bjørnson, che, nel suo recente lavoro insieme a Einar Selvik dei Wardruna, ha esplorato e approfondito l’uso di sonorità ambientali realmente evocative e tipiche della cultura norvegese. Non mancano neanche riprese che mettono in mostra la vena strumentale del gruppo, per esempio nella sezione solista di “Axis Of The Worlds”, capace di offrire ampi panorami melodici a fare da contraltare all’incedere serrato delle parti iniziali del brano. Il dialogo prog tra le parti pulite, ambient e le influenze più scure e pesanti si consolida ulteriormente in “Feathers Of Eolth”, che segue ulteriormente il tema runico tanto caro alla band e leitmotif dell’album in particolare, e trova una felicissima concretizzazione in “Hiindsight”, forse il momento più alto d’arrangiamento all’interno della scaletta.
“Djupet” merita un discorso a parte: l’abisso, come da titolo, dell’album, rappresenta l’esperienza più heavy e intensamente cupa degli ultimi Enslaved. Una vera perla nera, la cui antitesi è costituita da “What Else Is There”, cover dei Röyksopp, un pezzo che non ci si aspetta ma che risulta assolutamente gradito, a chiudere il discorso e il racconto di E, strizzando l’occhio a musiche insolite per il gruppo, anche se assolutamente personalizzate.
Un’operazione complessa, che, da un lato riprende stilemi e modelli che solo una band di comprovata esperienza può avere nel proprio bagaglio sonoro, ma che, d’altro canto, permette agli Enslaved di guardare avanti con coerenza e forza. Sicuramente ci sono degli elementi di discontinuità con quanto fatto negli ultimi quattro album, in particolare per via dell’impostazione meno psichedelica e più progressiva, che, tuttavia, non segna una vera rottura, ma, come da tradizione, l’ennesima evoluzione del loro sound. (Antonio Cassella)