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EMMA RUTH RUNDLE, Engine Of Hell

Non ascolto dischi come Engine Of Hell (this mechanism through which you’re forced to rewatch and relive memories over and over again, ha detto Rundle a Stereogum), troppo vicini alla tradizione per me. Mi scocciava molto, però, che Engine Of Hell non ci fosse sul sito, perché è davvero bello. Da queste parti conosciamo tutti Emma Ruth Rundle: è una del giro della musica pesante, ma in questo caso non è necessario che uno lo sappia. Quest’album, infatti, non c’entra nulla con quel giro e non c’entra nemmeno col modo in cui la vendono di solito (come parte di un’onda di cantautrici “dark”, qualunque cosa questo possa voler dire nel 2021), ma costringe a tirare in ballo nomi storici che hanno raggiunto tutti (Tori Amos, Nick Drake, Ani Difranco, anche Beth Gibbons…). Parla di persone danneggiate (per dirla con Martin Gore), di dipendenze, delle bugie che ci diciamo per non ammettere gli errori, di sfondarsi di alcol con la peggior compagnia del mondo (noi stessi), mostra scene che abbiamo visto o che amici ci hanno raccontato, ma fermi tutti: dopo una separazione e in prossimità dei quaranta, Rundle ha deciso che si chiama fuori. Tutto questo peso sul petto c’è quasi in ogni minuto di Engine Of Hell: se lo porta l’autrice appresso un’ultima volta per seppellirlo e noi immaginiamo di esser lì a patire insieme a un’amica, finché alla fine siamo liberi come lei, che ha rivissuto tutto anche per fare un favore tutti gli altri (si chiama esorcismo, penso). Durante il percorso si ascoltano un pianoforte essenziale, una chitarra acustica fragilissima, due volte il violoncello (l’onnipresente Jo Quail), un controcanto sottovoce in “Body”, i silenzi intorno, zero percussioni, zero elettricità, una voce autentica e forse non perfetta, ma non ha importanza, non ne ha mai avuta, mai ne avrà.