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ELLEN ARKBRO / MARCUS PAL, 6/4/2019

Ellen Arkbro, foto di Luca Ghedini
Ellen Arkbro, foto di Luca Ghedini

Bologna, Chiesa Evangelica Metodista (nell’ambito di Live Arts Week).

Cosa resterà, nel buio, di tutte le nostre ambizioni? Del buio da dove veniamo ed al quale torneremo. Del buio al quale molti dei presenti sabato nella Chiesa Evangelica Metodista si sono volontariamente consegnati chiudendo gli occhi, per sentire il suono allagare tutto, dentro. Per farsi essi(noi)stessi suono. Lasciamo perdere velleità, discorsi, ricerche di senso, veglie, attese; comunque vada, i nostri affanni a un certo punto verranno spazzati via da un’onda; senza spiegazioni, forse senza preavviso. Celebriamo allora i nostri sforzi, il nostro esserci qui ed ora, con un inno all’unico Dio per il quale mi avventuro nella maiuscola, l’unico Dio che non tradirà: il Suono. Quaranta minuti di variazioni dal ritmo geologico, come epifanie  lancinanti o di sollievo purissimo e vitale, satori che aprono baratri, botole, un massaggio profondo che sfoglia un libro di cui lasciamo tutte le pagine bianche (nel libretto di presentazione della rassegna lo spazio dedicato alla performance del duo è una pagina vuota con solo due secche didascalie; di nuovo ritorna John Cage: “There’s nothing to say, and i’m saying it”) e racconta ugualmente una storia, anzi la Storia. E allora l’universale, il silenzioso, il mistico diventano personale, fragoroso e mitologico, che ognuno di noi ha bisogno di una sua mitologia personale per poter andare avanti, per non consegnarsi completamente alla deriva che tutto spegne. E la deriva non sarà altro che un suono che si spegne. Echi come di un dub infinito nella testa, le nuvole di oggi. Le nuvole di ieri, i chakra chiusi, i chakra aperti, gli intrusi nei labirinti vastissimi, gli errori e i nostri doveri, una musica che non ha né un inizio né una conclusione, come stare a un’altezza indefinita, a picco, su un precipizio, mentre in cielo si radunano le divinità convocate da questo requiem celeste e le nuvole apparecchiano tempesta.

foto di Luca Ghedini
foto di Luca Ghedini

Ellen Arkbro ha stregato tanti con il suo Music For Organ & Brass, uscito per Subtext nel 2017: lo stesso senso di muta meraviglia, di resa perfetta, di silenzio minerale ci viene restituito con questa sound performance; siccome tutto è musica, anche le voci dei bambini fuori dalla chiesa entrano nella partitura: la musicista, timida e immersa nella potenza di questi fondali dove puoi scorgere creature di ogni sorta, sorride e annuisce ascoltando questa interferenza. Il ruolo di Marcus Pal, anch’egli svedese e dal 2013 al lavoro con Catherine Christer Hennix, non è chiarissimo, ma poco importa: probabilmente processa il suono, oppure aggiunge di suo altre frequenze, altri strati subliminali a questo universo cangiante ed armonico, dove ogni minima variazione è una valanga, si sale sempre più in alto mentre si scende sempre più verso il centro, verso il cuore, si entra sempre più dentro, fino a far sparire ogni sciocca pretesa di dire, di definire, di porre un confine. Solo e semplicemente nudo Suono nella magnificenza del suo nascere e crescere: come sancire il punto esatto in cui incomincia un’onda, o chiedere all’edera il perché del suo arrampicarsi. Non ci sono spiegazioni, non ci sono risposte, non ci sono narrazioni, non ci sono intenzioni. Di tutti i pomeriggi che passo, da vent’anni a questa parte, solo con il Suono, resta questo: un rapimento insonne, una parola sola ed indecifrabile, a testimoniare che l’ombra era qui, che qui abbiamo vissuto, viviamo, vivremo, almeno fino al prossimo punto e a capo. Riaprendo gli occhi, quando la musica ha smesso di abitare ogni atomo circostante (quando noi abbiamo smesso di essere musica), c’era quasi un poco di pudore nel dire qualcosa, che tutto suonava superfluo. Un  limbo/paradiso in cui perdersi ancora, ancora e ancora, nell’estasi statica della fissità che cambia sempre. Ognuno dei presenti avrà sentito anche la sua voce, per una volta perfettamente intonata, il suo suono, in questa sterminata preghiera laica: con alcuni ci siamo trovati sull’unico difetto riscontrabile, la lunghezza: avremmo voluto che durasse di più, forse una vita intera. Una commedia umanissima e divina, fatta di un pugno di note. Non ne saranno suonate più di cinque, in tutto il live, ma che importa? Davvero importa? Un haiku gigante come una montagna e sottile come una foglia, un paradosso di vertigine e immobilità. E infine uscimmo a riveder le stelle.