Ellen Arkbro e l’esperienza del suono
Queste registrazioni sono tracce di qualcosa che ho imparato, amandolo, a ottenere nei grandi spazi risonanti, cioè impostare accordi sospesi su più organi e poi muovermi lentamente attraverso il suono. Gli strumenti di solito si trovano lontani, il che fa emergere vasti campi di continuo cambiamento, spazi di armonicità che possono essere attraversati livello dopo livello e che contengono punti che sono sia chiari, sia travolgente complessità. Le canne degli organi sono accordate e riaccordate, anche se ogni tanto le lascio così come sono. Ciò di cui vado in cerca è il momento in cui si rivela una trama sonora particolare… Così Ellen Arkbro (Stoccolma, 1990) sul suo nuovo disco Sounds While Waiting, uscito da poco per la statunitense Superior Viaduct.
“Sounds While Waiting” è anche il titolo della performance di Arkbro al Node (Modena) di quest’anno, che è – per citare lo staff del festival – un’inedita composizione site-specific modulata sulle caratteristiche timbriche dell’organo della Chiesa del Gesù Redentore. Un percorso sonoro che nasce nei giorni precedenti al concerto, durante i quali la compositrice avrà modo di entrare in sintonia con lo strumento, lo spazio e l’architettura. L’organo del Gesù Redentore è uno strumento assemblato con elementi di recupero provenienti dal Regno Unito. Una delle sue particolarità è la collocazione in punti diversi nello spazio delle canne, e quindi la spazializzazione del suo suono all’interno della chiesa; uno strumento in perfetta sintonia con la pratica acustica di Arkbro in cui il suono diventa pura manifestazione fisica in grado di abitare uno spazio, avvolgendo l’ascoltatore e rendendolo parte attiva del processo di ascolto.
La riduzionista radicale svedese Ellen Arkbro ha ormai compiuto un percorso piuttosto lungo e per fortuna noi ci siamo occupati sin da subito e costantemente di lei, così quest’intervista, unita ai nostri pezzi precedenti, arriva come il proverbiale tassello mancante al mosaico. Per quanto non sia semplice avvicinarsi a lei, siamo per certo di fronte a un’attrice principale del nuovo scenario minimalista di questi anni (incredibile come il tempo fermo della pandemia e il minimalismo di Arkbro e altri ci abbiano indotto a ripensare i ritmi impossibili che seguiamo durante le nostre giornate normali) e siamo molto contenti di averla finalmente raggiunta. Aggiungo poi, personalmente, che sono felice di mostrare come il lavoro di questa webzine abbia seguito tanti temi nel corso del tempo senza perderli per strada, senza trasformarsi solo un contenitore di recensioni. Concludo con l’invito a “beccare” il maggior numero di eventi possibili realizzati da quelli del Node. Qui il programma.
Ellen Arkbro, Maria Horn, Kali Malone, Caterina Barbieri. Siete amiche da tempo (Hästköttskandalen e altre collaborazioni). Ora siete sui cartelloni dei festival più prestigiosi. Solo coincidenze? Se no, perché?
Ellen Arkbro: All’inizio a legarci è stata soprattutto la creatività. Condividevamo tutte qualcosa, ma avevamo tutte estetiche nostre, suoni nostri (o voci nostre, se vuoi). Questo era molto stimolante e d’ispirazione: ecco come sono nate le nostre prime collaborazioni. Ciascuna di noi ha fatto conoscenza con le altre attraverso la musica. Però penso che ci siamo rese conto molto velocemente di avere ciascuna un’idea chiara di ciò che volevamo fare, quindi ha cominciato ad avere sempre meno senso lavorare assieme nel momento in cui ciascuna di noi sapeva cosa voleva esplorare. Nonostante molta gente ci nomini spesso insieme, penso che – se ce ne sono – le somiglianze nelle nostre musiche esistano a livello superficiale. Se ascolti meglio, scopri che abbiamo canoni differenti e suoniamo cose davvero differenti. Credo che sia una domanda che ci viene fatta spesso perché siamo tutte donne e per questo fanno menzione di noi tutte insieme, ma penso sia il caso di andare oltre.
Molto di recente ho parlato con Lucy Railton di gender equality nel vostro ambiente. Lei mi ha detto che curare e programmare line-up a maggioranza o pari presenza femminile è importante per spostare l’ago della bilancia in uno scenario a predominanza maschile, ma il lavoro importante andrebbe fatto sull’atteggiamento degli individui che gestiscono le strutture. Che cosa vuoi aggiungere?
Sono un’artista. Penso soprattutto al suono e alla musica ed è lì che vorrei stessimo focalizzati. Mi intristisce che questo sia un tema di cui parlare ancora, ma sì. Come mai nessuno vuole una scena musicale con tante donne? Questo è ciò che non capisco. Ci sono così tante artiste brillanti e curiose in giro.
For Organ And Brass e CHORDS sono stati pubblicati da Subtext. Sounds While Waiting è mixato da te e James Ginzburg. Ho intervistato James. Secondo me è una figura-chiave di questi anni. Vorrei sapere quale è il terreno comune tra te e lui.
Penso che ci capiamo a vicenda e condividiamo una certa sensibilità. Penso che abbiamo sviluppato un sistema di ascolto insieme attraverso le cose su cui abbiamo collaborato. Non conoscevo James quando mi ha raggiunto e mi ha chiesto di pubblicare For Organ And Brass per la sua etichetta (Subtext). Era il 2015. In qualche modo aveva ascoltato delle registrazioni di una performance di For Organ And Brass a Stoccolma e voleva che registrassimo il pezzo. All’inizio esitavo perché non capivo ancora la musica. In qualche modo ho compreso For Organ And Brass grazie alle orecchie degli altri dopo che è stato registrato e pubblicato. Anche se abbiamo idee diverse, James conosce la mia prassi e il mio approccio al suono molto bene a questo punto, quindi tutto il lavoro di missaggio avviene senza nemmeno parlare troppo.
Sounds While Waiting esce per Superior Viaduct. Prevalentemente Superior Viaduct è una “archival label”. Di conseguenza ho due domande, la prima su quale sia il tuo rapporto con alcuni degli artisti e dei “vecchi” capolavori sul catalogo di quest’etichetta (Tony Conrad, La Monte Young, Steve Reich, Ellen Fullman, Phill Niblock…), la seconda su come ti senta tu a trovarti sullo stesso catalogo di questi giganti, l’unica contemporanea assieme a Sarah Davachi. P.S.: ho letto che hai studiato con La Monte Young e Marian Zazeela, ma non so molto più di questo.
Ho un legame molto forte e speciale col lavoro di La Monte Young. È quello ad avermi influenzata di più. Ho conosciuto La Monte e Marian Zazeela alcuni anni fa, quando vivevo alla Dream House. È stata un’esperienza incredibilmente formativa e ha impostato il tono della maggior parte delle cose che ho fatto dopo. Sono poi entusiasta di tutti i dischi jazz che Superior Viaduct ha ristampato, ad esempio Albert Ayler, Ornette Coleman, John Coltrane, Charles Mingus… Questa musica ha influito altrettanto su di me. Io penso che la mia musica sia in qualche modo collegata al jazz. Specie quando si va sull’armonia. Aggiungo ovviamente Henry Flynt.
Sounds While Waiting è anche il nome della tua performance site-specific al Node Festival Modena, in una chiesa che si chiama “Gesù Redentore”. Correggimi se sbaglio, ma hai ricevuto un’educazione religiosa e il tuo lavoro è spesso legato a chiese (a causa dell’uso dello spazio e a causa del fatto che suoni organi storici). Sei ancora una persona religiosa o il suono è il tuo solo Redentore?
Io non penso così al suono. Si tratta di percezione, di esperienza. Credo sia questo ciò che mi interessa di più. E mi piace lavorare col suono in spazi che abbiamo una certa risonanza, un certo riverbero naturale, perché è lì che penso che le cose comincino a farsi interessanti e siccome gli organi si trovano soprattutto nelle chiese o nelle sale concerti – e le sale concerti sono troppo asciutte – spesso finisco per suonare nelle chiese. Penso anche che sia diverso trovarsi in una chiesa o in una stanza con un bar, penso che l’umiltà sia qualcosa che accompagni bene a un tipo di musica che richiede qualcosa in più a chi ascolta. Credo che tu possa dire che io sia in un certo senso spirituale o che la mia musica lo sia. Mi interessa poi anche la teologia.
C’è un ep degli Ulver chiamato Silence Teaches You How To Sing. Ho pensato al significato di questo titolo mentre ascoltavo I Get Along Without You Very Well. Ha senso per te? Esplorerai ancora l’uso della voce in futuro?
Non lo so. Credo di poter capire l’associazione. C’è di sicuro qualcosa di silenzioso in I Get Along Without You Very Well. E a me questo disco sembra heavy o dark. E in questo senso un po’ metal. Slow jazz metal… (ride, ndr) Non so se qualcuno possa beccare questo riferimento. Non so. Sto scrivendo molte canzoni così. Vedremo. Sarà diverso la prossima volta. Questo è certo.
Domanda facile finale. Visti tuoi gusti musicali particolari e il tuo percorso musicale particolare, vorrei sapere chi è rimasto nelle tue cuffie di più quest’anno…
Non ascolto musica in cuffia! Ho ascoltato molti organi e tube, lavorando tutto il tempo sulla mia musica. A parte questo, ho ascoltato molto Milton Nascimento e ho scoperto l’album di Miles Davis Get Up With It.