Elio Martusciello: suoni senza mondo
Elio Martusciello: compositore, docente al conservatorio, improvvisatore, pensatore, memoria storica e pulsante dell’avanguardia, da anni uno dei nomi di riferimento per le musiche non allineate in Italia, basti citare gli Ossatura. Già protagonista di un’intervista sulle nostre pagine tre anni fa, è coinvolto ora in un nuovo progetto, l’Orchestra Elettroacustica Officina Arti Soniche (OEOAS), un collettivo che coinvolge un numero monstre di musicisti (in questa occasione un centinaio) e che negli spazi dell’Ex Asilo Filangieri a Napoli ha registrato l’esordio, Alicia, un ottimo disco-esperimento di improvvisazione in due movimenti (Grigio e Rosso). Di questo e di molto altro abbiamo parlato con il diretto interessato; la conversazione è nata con la prospettiva di un articolo per Il Manifesto (sì, scriviamo anche sulla carta!) pubblicato l’11 marzo: qui riportiamo il molto che era, per ovvie ragioni di spazio, rimasto fuori dalla pagina. Ascoltare Martusciello è uno scoprire mondi. Accomodatevi.
Mi racconti il tuo primo ricordo musicale?
Elio Martusciello: Nella mia famiglia non si ascoltava molto la musica, lo faceva solo un po’ mia sorella, che tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 acquistava 45 giri per le sue feste in casa con gli amici. Avevo una decina di anni, ma alcune di quelle canzoni ricordo che le ascoltavo con piacere: A Whiter Shade Of Pale (1967 – Procol Harum); Venus (1969 – Shocking Blue); Concerto (1969 – Alunni del Sole); Paranoid (1970 – Black Sabbath); Black Dog (1971 – Led Zeppelin). Però grazie a degli amici molto più grandi di me, che amavano la musica e che vivevano nel mio quartiere, mi avvicinai ben presto, diciamo a partire dal ’72, a Pink Floyd, Yes, Genesis, Rory Gallagher, Jefferson Airplane, Gong, Led Zeppelin, Neil Young, Tangerine Dream, Klaus Schulze ed altro ancora.
Sei docente al conservatorio: mi racconti il tuo percorso e il mondo accademico da dentro? Come siamo messi in Italia, da questo punto di vista, per la tua esperienza?
Durante la seconda metà degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80, anche grazie a tanti altri incontri fortunati (Luce Irigaray scrive che l’altro apre soglie all’orizzonte del nostro essere), il mio campo d’interesse per la musica si ampliò notevolmente: Bach, Beethoven, Schönberg, Cage, Ligeti, Xenakis, Stockhausen, Ayler, Davis, Bailey, Oxley, Weather Report, Chion, Smalley, Parmegiani, Dhomont, Tietchens, Nurse With Wound, Zoviet France, AMM, MEV, Biota, ZGA, Chaurasia, Zia Mohiuddin Dagar e così via. Inizialmente suonavo la chitarra, ma con l’ampliarsi dei miei ascolti e interessi musicali mi sono sempre più spostato verso la composizione, l’improvvisazione radicale, i sintetizzatori, il computer, le tecniche di registrazione e di montaggio audio. Sono stato un autodidatta, ma ormai negli anni ’90 la mia attività era alquanto riconosciuta a livello internazionale. Ero spesso invitato in centri di ricerca musicale, vincevo concorsi internazionali di composizione elettroacustica e con Ossatura (dopo un po’ anche con tanti altri musicisti) si andava in giro per il mondo a fare concerti. Fu proprio in quegli anni che, invitato al GRM di Parigi, incontrai Francesco Giomi (anche lui invitato lì), che mi consigliò l’insegnamento come cosa utile per me e le giovani generazioni che studiavano Musica Elettronica nei conservatori italiani. Io non ci avevo mai pensato, anche perché credevo che fosse una cosa impossibile per uno come me che non aveva alcun titolo di studio al riguardo. Ho fatto studi artistici e non musicali. Anzi, a dire il vero, i miei genitori ci provarono a iscrivermi al conservatorio San Pietro a Majella quando ero un ragazzino, ma non fui ammesso. Francesco Giomi mi spiegò che il riconoscimento della mia attività professionale nel campo della musica elettronica fosse più che sufficiente per l’insegnamento, ed effettivamente così è stato. Per ironia della sorte, il conservatorio di Napoli non mi accolse come studente, ma lo fece molti anni dopo in qualità di docente. I corsi di Musica Elettronica in Italia sono abbastanza giovani, ogni anno vengono aperte nuove cattedre, approfittano di un periodo di ancora forte espansione, quindi al momento un buon numero di docenti sono alquanto rappresentativi della musica elettronica in Italia e nel mondo. Certo, di problematiche ce ne sono tante. Ad esempio, ancora si fa fatica ad attivare nelle diverse istituzioni conservatoriali tutte le cattedre afferenti alla musica elettronica, di conseguenza molte di queste vengono ricoperte da docenti che spesso però mancano di competenze più specifiche. Tutto questo va anche a svantaggio di una certa polifonia di voci e visioni che sarebbero estremamente nutrienti per uno studente. Inoltre, la musica elettronica vive di una tensione interna che nasce da una dialettica attivata da almeno due delle sue principali vocazioni: quella umanistica e quella scientifica. Ovviamente, questo produce una differenza di visioni, pratiche e didattiche che talvolta non trovano facili soluzioni o adeguate armonizzazioni.
Ho trovato Incise un disco bellissimo: come mai quello successivo non ha avuto un formato fisico? Noti problemi della fine del supporto o c’è anche dell’altro?
In realtà mi rendo conto che il mio rapporto con la musica sta mutando in questa fase della mia vita. Amo suonare dal vivo incontrando musicisti e pubblico, mentre l’attività compositiva diviene per me sempre di più un fatto privato e il mio interesse per la diffusione e la promozione della mia musica si è letteralmente affievolito. Quindi trovo massimamente noioso fare tutto il lavoro utile per realizzare in un formato fisico quest’attività creativa. Trovo così veloce e semplice caricare la mia musica in un formato liquido. Insomma, in rapporto al mio attuale livello di aspirazione, caricare un file su qualche piattaforma adatta alla musica nel web è il massimo dell’impegno che riesco a profondere. Resta il fatto che anche su di un piano più generale non sono particolarmente legato ai dispositivi fisici connessi alla riproduzione musicale. Come ho già scritto da qualche parte, per un’esperienza ineffabile e contemplativa come la musica trovo inappropriata qualsiasi materialità che ne possa vincolare la fruizione. Se fosse possibile io eviterei qualsiasi dispositivo hardware utile alla riproduzione musicale: supporti audio, diffusori, cuffie, amplificatori, cavi. Insomma, la smaterializzazione della musica (intendo quella riprodotta e non di certo quella performata), al di là dei problemi organizzativi, politici ed economici che riguardano tutti quelli che vivono grazie a essa, è da me salutata con estremo favore. A mio avviso le caratteristiche tecnologiche relative alla diffusione della musica e le questioni economiche di chi vive grazie alla musica sono due ordini di problemi diversi che spesso vengono sovrapposti e confusi: lo sviluppo tecnologico, a mio avviso, non deve essere impedito e le soluzioni economiche vanno di volta in volta ricercate.
OEOAS, Alicia: ci racconti il progetto e ci parli del disco?
L’Orchestra Elettroacustica Officina Arti Soniche (OEOAS) è una delle cose più belle che mi sia capitata durante la mia vita artistica (direi anche durante la mia vita tout court). In molti progetti abbiamo suonato superando i 100 musicisti. Anche se 100 è esattamente il numero di musicisti raggiunto per le sessioni di registrazione del disco Alicia. In realtà i componenti di OEOAS al momento superano i 400 musicisti. Una meravigliosa esperienza non solo musicale, ma anche sociale, di condivisione creativa e immaginativa. Grazie al fatto che si tratta di un progetto fondato sulla pratica improvvisativa riesce, al di là del grande numero di musicisti coinvolti, a rimanere una struttura che opera con estrema leggerezza, nonostante il rigore sul piano musicale ed etico. Anche la figura del conduttore, necessaria per evitare eccessivi sconfinamenti in direzione del caos, non è quella solita che spesso e volentieri porta i musicisti a eseguirne semplicemente l’idea musicale che ha in mente. La figura del conduttore nel nostro caso, invece, tende solo a raccogliere e fissare meglio le proposte e le istanze musicali che provengono dall’orchestra stessa. Questo proposito è perseguito con tale impegno, che abbiamo deciso di non scrivere nel disco i nomi dei componenti dell’orchestra che concretamente hanno condotto durante le sessioni di registrazione. Questo forse è un dato inedito per qualsiasi produzione discografica esistente relativa alle pratiche delle conduction, infatti abbiamo scritto: “conducted by OEOAS”. Questa è un’orchestra che si caratterizza per una massiccia presenza di musicisti elettronici, che incidono profondamente sul risultato sonoro del disco. Anche la ricchezza di esperienze musicali diverse, che attraversano la nostra orchestra, ha regalato un ventaglio di colori molto suggestivo ad Alicia. La presenza del suono elettronico in diretta e di alcuni microfoni posizionati in prossimità di alcuni strumenti ha consentito di costruire un suono coinvolgente, ne derivano più piani in termini di profondità dello spazio e diversi livelli di definizione. Siamo passati dal muro prodotto dai 100 musicisti, dai suoni “senza mondo” generati dagli strumenti elettronici, ai piccoli e fragili suoni risonanti e intimistici degli strumenti acustici, con un respiro tipico da musica da camera. Il prodotto finale è il risultato di una settimana di sessioni di registrazione che è stato possibile realizzare grazie ai grandi spazi che l’Asilo ci ha messo a disposizione. Si tratta di un album che ha già riscosso un notevole plauso da parte del pubblico e degli addetti ai lavori.
Cosa stai ascoltando in questo periodo e come stai vivendo questi lunghi mesi complicati? In che modo influiscono sul tuo lavoro?
Grazie all’insegnamento mi sento un privilegiato, per tre motivi in particolare. Il primo riguarda proprio la musica. Avendo tanti studenti che si nutrono costantemente di ogni prodotto musicale inedito e di qualità che riescono a intercettare grazie alle diverse strategie che ognuno di loro mette in essere, ne consegue che grazie a loro il mio rifornimento giornaliero è sempre assicurato: Anthony Pateras, Eric La Casa, Brandon Labelle, Gangly, Nadah El Shazly, Daniel Blumberg, Grischa Lichtenberger, Maarja Nuut, Rashad Becker, Kassel Jaeger, e così via. Il secondo motivo è che grazie all’insegnamento in remoto ho un reddito che mi consente di vivere. Quindi, per me la perdita derivante dal blocco di tutte le attività concertistiche per colpa di questa pandemia è stata solo parziale, mentre per molti miei amici la cui unica attività è di tipo concertistico e non hanno altre opportunità di guadagno la perdita è stata totale: un vero disastro. Il terzo motivo è che in un momento di isolamento sociale come questo, i miei incontri con gli studenti in remoto, anche se si tratta di un surrogato di socialità, sono pur sempre un fatto importantissimo: è meraviglioso condividere in gruppo, se pure in video, impressioni, idee, sguardi e perfino sorrisi. Devo dire che tutto questo, in una certa misura, escluso piccoli impegni per qualche richiesta specifica, non mi ha messo nelle condizioni di lavorare, di produrre musica. Non sono riuscito a concentrarmi sul fare, ma ho molto meditato sulle contraddizioni del mio “sentire” e sul possibile rischio di una perdita di “senso” del mondo.
Come pensi la musica? La “vedi”, la scrivi, la capti intorno?
Il mio rapporto con la musica è discontinuo, improvvisamente mi prende una voglia di operare con i suoni che non so spiegarmi. Ne sento l’urgenza estrema anche se spesso non ho assolutamente idea di cosa fare. So solo che quel desiderio mi viene quando so che davanti a me c’è un bel po’ di tempo tranquillo per potermici immergere pienamente. Quando mi prende questa smania creativa non riesco a staccare… tutto intorno a me scompare. Chi mi vive vicino sa che divento intrattabile, non ho più tempo per niente: salto i pranzi, il sonno. Durante i primi giorni sono agitatissimo, perché come ho già detto non so cosa fare. Inizio con dei tentativi che non approdano a niente. Passano settimane producendo solo frammenti di niente (qualche volta dovrei provare a raccogliere tutti questi frammenti disseminati nei miei hard disk e collegarli in una sequenza caotica). Credo di non essere quasi mai partito col piede giusto. Poi, improvvisamente, d’incanto qualcosa prende una forma che condivido pienamente… e allora non mi fermerei più. Da quel momento in poi, anche se eventualmente con qualche breve pausa (tipo una settimana al massimo) posso realizzare nell’arco di qualche anno un intero disco. A quel punto è come se fossi entrato in un ambiente magico contrassegnato da una particolare “atmosfera”. Qualsiasi cosa che faccio risponde ad un unico nucleo emozionale, estetico, immaginativo. Questa “atmosfera” però si proietta molto oltre la sola musica e inonda il mio vivere. Alcune cose della mia vita finiscono col fare da sfondo a quel “sentire”, mentre tante altre cose entrano in sintonia, si accordano, si armonizzano con esso. Comunque, per me la musica è come una febbre, certo un tantino volontaria, ma pur sempre un’eccedenza nei confronti del mondo. Essa trasfigura, amplifica, intensifica questa spiritualità tutta incarnata che noi siamo e che si connette al mondo, che interagisce con esso.
Cinque dischi che hanno segnato la tua vita da ascoltatore?
Inutile dire che questo è sempre un gioco demoniaco, ma come tutti i giochi è divertente parteciparvi. Li metto in sequenza cronologica a partire dal momento in cui li ho scoperti:
Pink Floyd – The Dark Side of the Moon
Tangerine Dream – Atem
Karlheinz Stockhausen – Mantra
Christian Calon – Ligne De Vie
Asmus Tietchens – Seuchengebiete 2
Quali sono le tue fonti di ispirazione al di fuori della musica?
Da ragazzino i miei genitori mi regalarono, su mia insistenza, un telescopio. Confesso (è la prima volta che lo faccio) che qualche giorno dopo feci il mio primo e unico furto in una libreria (che spavento… se ci penso avevo quasi più paura che lo venissero a scoprire i miei genitori che non il libraio): una meravigliosa guida astronomica che conteneva utilissime mappe stellari. Il cielo stellato è stata una grande fonte d’ispirazione per me, lo scrutavo di notte mentre ascoltavo in cuffia i Tangerine Dream, Klaus Schulze o Brian Eno. La mia prima composizione elettronica del 1978 infatti si intitolava “Betelgeuse” (il nome della seconda stella più luminosa della costellazione di Orione). Altra grande passione che pure ha dato un grande impulso alla mia immaginazione è stato sicuramente il gioco degli scacchi. Studiavo e leggevo qualsiasi libro riguardasse quel gioco. Non solo testi sulle strategie e le tattiche del gioco (cosa che mi consentì di partecipare a tornei ufficiali e ottenere la categoria di seconda nazionale), ma anche libri legati alle narrazioni, alle storie, alle poesie che riguardassero questo incantevole gioco. Se ripenso a quel periodo, lo collego all’ascolto della “Passione secondo Matteo” di J. S. Bach o alla poesia dedicata agli scacchi di J. L. Borges (poesia che imparai a memoria… mi rifiutavo di farlo per quelle che mi proponevano a scuola, ma con questa e altre dedicate agli scacchi mi sembrava cosa dovuta, necessaria). A partire da queste esperienze sicuramente mi sono avvicinato ai libri e dal lì ne è scaturito il mio interesse per tante altre cose: cinema, arte, filosofia, fotografia. Alcuni nomi… i primi che affiorano alla mia mente in ordine sparso: Tarkovskij, Lynch, Hölderlin, Bergson, Burri, Zambrano, Kiefer, Jullien, Jodice, Rimbaud, Jankélévitch, Giovenale (ma intendo il nostro Marco) e così via.
E una collaborazione dei sogni?
In realtà, forse ti sembrerà strano, ma i miei sogni sono relativi a realtà che già possiedo e che ho tanta voglia di riprendere quanto prima: Ossatura e OEOAS.