ELIO MARTUSCIELLO

È stata una delle presenze più gradite di questa edizione de La Digestion, ospite direi “naturale” della manifestazione: Elio Martusciello, napoletano, classe 1959, docente di musica elettronica presso il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, vanta un lungo percorso di sperimentazione in cui ha affiancato i lavori a proprio nome a quelli degli Ossatura, il suo progetto più famoso, e alle collaborazioni con, fra i tanti, Tim Hodgkinson, Mike Cooper, Alvin Curran, Evan Parker e il compianto Z’EV. Il 2 marzo uscirà Incise, il suo quarto disco solista, un collage sonoro di materiali di diversa provenienza che estende il concetto di musica concreta alla melodia, coniugando in maniera più che convincente il paesaggio elettroacustico e la forma-canzone.

Nasci come chitarrista: quale è stato il momento in cui hai deciso che sei corde non ti bastavano più e sei passato a una musica, per così dire, meno convenzionale? Come è avvenuto questo passaggio?

Elio Martusciello: In realtà si tratta di un processo molto lento che potremmo descrivere come una metamorfosi – di fatto un vero e proprio capovolgimento – del mio modo di “sentire” e pensare il suono, che dalla chitarra (il suono come semplice emanazione di quello strumento) mi ha condotto al “dispositivo a corde” (allo strumento come pretesto per giungere al suono). “Più importante del pensiero è ciò che dà da pensare” scriveva Deleuze, ed in effetti credo che alcune esperienze giovanili – incontri musicali “altri” avvenuti tramite la radio, qualche coraggioso festival cittadino e i dischi – mi dettero molto da pensare: da lì il lento mutamento paradigmatico.

So che ti eri anche iscritto al Conservatorio e che poi avevi deciso di interrompere gli studi. Adesso al Conservatorio insegni. Deve essere stata una bella soddisfazione uscire dalla finestra per rientrare dall’ingresso principale…

Eheh! Ti dirò di più: non ero stato proprio ammesso! In uno di quei particolari momenti in cui si riflette sugli aspetti enigmatici ed oscuri che determinano il nostro essere, mi sono divertito a pensare a tutta la mia attività solo come ad un semplice pretesto per prendermi una rivincita sul destino.

In virtù della tua esperienza di insegnante, come giudichi la formazione musicale accademica in Italia? Pensi ci sia un’apertura sufficiente rispetto a quello che avviene al di fuori delle mura del Conservatorio?

Ovviamente conosco meglio la situazione in riferimento alla musica connessa alle nuove tecnologie elettro-elettroniche. Si tratta di percorsi in chiara espansione: nuove cattedre aprono, nuovi corsi ampliano l’offerta, sempre più giovani si presentano alle ammissioni. Un contesto culturale generale sembrerebbe promuovere una maggiore apertura verso ciò che accade fuori. Forme musicali prima impensabili all’interno di un’aula di musica elettronica ci transitano ormai quotidianamente. Credo che lentamente, molto lentamente, con la graduale immissione nel corpo docente di una più giovane generazione, l’apertura possa affermarsi con più decisione.

Puoi darmi una tua definizione del termine “avanguardia”?

Lasciando da parte, direi agli studiosi, gli aspetti più squisitamente storici e teorici del termine, personalmente mi piace pensare all’avanguardia come a un qualcosa di costitutivo ed essenziale dell’arte. Credo che l’arte abbia esattamente il compito di mostrarci vie nuove ed alternative all’esistente, che essa debba presentarsi come la forma massima di “progetto esistenziale” in direzione della nostra fondamentale “apertura al senso”. A mio avviso deve farlo pensando al “qui ed ora” e non solo come possibilità futura, quindi deve coinvolgere il nostro “sentire” presente promuovendo però contemporaneamente il movimento verso un “sentire” futuro. Da questo punto di vista una certa “indigeribilità”, che spesso si associa alla funzione dell’avanguardia, nel mio modo di vedere è in parte inevitabile, ma una sua radicalizzazione impedisce all’arte di divenire già nel presente uno “spazio esistenziale e politico” di condivisione ed emozione.

Nelle note che accompagnano il tuo nuovo lavoro troviamo la definizione “affascinante esperimento avant-pop”: pensi quindi che le due dimensioni, quella pop e quella dell’avanguardia, siano conciliabili?

Conciliabili forse è troppo, una certa incompatibilità probabilmente non può che sussistere. Personalmente trovo stimolante per l’uomo un certo principio di incompletezza; da questo punto di vista il termine “avant-pop” è forse un ossimoro, un paradosso terminologico che però produce un’incandescenza estremamente nutriente dal punto di vista dell’immaginazione. Credo che per un artista sia più stimolante muoversi in queste zone di slittamento semantico, di fratture emotive, di deriva epistemica, di enigma creativo, di conflitto logico.

Ti ho fatto questa domanda perché tempo fa, in una delle baruffe social in cui mi trovo periodicamente coinvolto, si discuteva proprio sulla possibilità di conciliare avanguardia e pop e se ne faceva essenzialmente una questione di numeri: l’avanguardia pensi sia inesorabilmente legata al piccolo numero o la cosa non è così automatica come spesso si dice?

Non saprei, non vorrei scomodare Debord, ma probabilmente i sogni di ogni singolo uomo sulla terra contengono percorsi immaginativi inediti che potrebbero configurarsi come una forma di avanguardia nei confronti del “sentire” comune. E quindi essa sarebbe alla portata di tutti. Certo è che la prassi dell’arte così come si è sedimentata nel tempo probabilmente rende l’avanguardia inevitabilmente un fenomeno minoritario.

Ho trovato la scelta di mettere insieme la tua performance, all’interno de La Digestion, con quella di Otomo Yoshihide particolarmente azzeccata, avendo voi due approcci al suono così diversi eppure complementari, il suo così fisico, il tuo decisamente acusmatico. La tua è musica che si sente quasi esclusivamente con le orecchie, in cui rimane difficile collegare il gesto del musicista al suono: alcuni artisti vicini al tuo modo di suonare abbinano alla musica – durante le esecuzioni dal vivo – dei visual, molto probabilmente anche per arrivare a più persone: cosa ne pensi? Ne hai mai utilizzati?

Sì, è vero, i ragazzi de La Digestion hanno fatto uno straordinario lavoro e anche le loro scelte estetiche, contenutistiche sono di grandissimo profilo. Si tratta di giovani molto bravi, tutti competenti e intelligenti. È vero, la serata ha funzionato molto bene. Forse per colpa mia – è stata una mia scelta – ho suonato eccessivamente al buio e non si sono potute apprezzare alcune gestualità che, se pure non comparabili con quelle estreme di Otomo, pure ci sono state; tipo quando ho suonato le veloci articolazioni pianistiche, seppure campionate, o quando sono intervenuto più volte sulla chitarra elettrica, anche se distesa sul tavolo. Circa i visual è secondo me un’opzione legittima, io stesso spesso li ho utilizzati, ma non si tratta a mio avviso di una strategia da seguire per ottenere un maggiore appeal o di un modo per risolvere il problema dello sguardo. Piuttosto è semplicemente un’attività diversa: come suonare in solo o con un gruppo, comporre o improvvisare, produrre musica al buio e silenziando conseguentemente lo sguardo o lavorando sul valore aggiunto della visione.

Ritornando al tuo lavoro in uscita, sembri effettivamente aver trovato un equilibrio estremamente piacevole fra la sperimentazione ed altre cose più fruibili, come la forma-canzone, a cui mi sembra ti sei avvicinato a più riprese durante il tuo percorso artistico. In alcuni momenti ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte a una sorta di trip-hop vivisezionato, soprattutto per l’uso particolare che fai delle molte voci: ci parli un po’ del processo creativo che ha portato ad Incise?

In effetti è già da un po’ di tempo, diciamo dal 2011 con Concrete Songs, che mi sto interessando a estendere le tecniche della musica concreta fino alla forma canzone. Infatti, anche i profili melodici delle voci sono il risultato di un montaggio artificiale. Così come nella tecnica della musica concreta, e non di certo delle prassi connesse alla canzone pop, ogni suono – voci comprese – è solo un oggetto sonoro “trovato”, e nessuna cantante ha operato seguendo uno spartito o registrato su qualche struttura musicale data. Si tratta quindi solo di materiali derivanti da altri contesti.

Notizie degli Ossatura?

Ossatura, escluso il suo periodo iniziale, è un gruppo che opera con molta calma: tra una sua apparizione in concerto o un disco passa sempre molto tempo. Tre dischi in ventitré anni direi che lo dimostrano senza equivoci. Nei prossimi mesi abbiamo alcuni concerti, ma nulla di più. Diciamo che una novità potrebbe essere data dal fatto che neanche ad un anno di distanza dal nostro ultimo Maps And Mazes, ultimamente, ci siamo riproposti di attivarci per un nuovo disco. Un miracolo. Comunque al di là della nostra attività musicale, più che centellinata, devo dire che Luca e Fabrizio restano per me un fondamentale riferimento di riflessione e crescita musicale.

Ultimamente si fa un gran parlare di Napoli, sembra sia in atto una sorta di “Rinascimento napoletano” da più punti di vista: cosa ne pensi e quali sono le realtà musicali locali da tenere d’occhio a tuo avviso?

Devo dire che da quando sono ritornato a Napoli anche io sono rimasto molto colpito dalla sua vivace scena musicale. I primi che ho incontrato sono stati un gruppo di bravissimi musicisti che operavano nel collettivo Crossroads Improring: Antonio Raia, Pietro Santangelo, Stefano Costanzo, Renato Grieco, Umberto Lepore, Jack d’Amico, Ciro Riccardi, Massimo Imperatore, Charles Ferris, Fabrizio Elvetico, Giuseppe Vietri, Marco Castaldo, Marcello Vitale… Infatti è proprio grazie a quest’opportunità che mi sono immediatamente prodigato per aprire la mia classe, e il conservatorio tutto, in direzione di questo territorio palpitante. La grande orchestra OEOAS (Orchestra Elettroacustica Officina Arti Soniche) è l’effetto massimamente palpabile di questa felice situazione. Comunque, un grandissimo lavoro direi che lo stanno facendo proprio quelli de La Digestion; penso a Renato Grieco, Mimmo Napolitano, Giulio Nocera, che non solo sono dei fantastici musicisti, ma stanno portando a Napoli una serie di artisti di altissimo profilo che stanno certamente lasciando un profondo segno in questa città. Segni propulsivi e formativi anche per i giovani musicisti napoletani. Poi esiste un’altra grande realtà, un fenomeno inedito di “bene comune”, che grazie ad un autentico movimento dal basso sta promuovendo attività culturali ed artistiche di grande spessore. Mi riferisco all’esperienza dell’Asilo, che anche dal punto di vista musicale sta facendo un lavoro eccellente, ospitando tra l’altro anche l’OEOAS sia per alcuni concerti che per i suoi laboratori musicali. Insomma, credo di poter confermare quello che sembra proprio un “Rinascimento Napoletano”.