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EHNAHRE, Douve

  • EHNAHRE, Douve

Douve, basato sul poema “Theatre” del francese Yves Bonnefoy, sposta ulteriormente il tiro sperimentale di una formazione già in partenza distante dal sentire comune e dagli standard stilistici in voga nell’attuale panorama metal. Anzi, a volerla dire tutta, qui di metal comunemente inteso rimane davvero ben poco, compresso e annegato in un oceano di rimandi a forme espressive e dinamiche di ben differente natura. Eppure si tratta di uno dei dischi più pesanti e oscuri usciti di recente, tanto violento quanto inquietante nelle sue atmosfere e nel suo incedere fatto di suoni debordanti e di silenzi altrettanto evidenti, con un utilizzo massiccio di parti di piano che vanno a giocare con le metodologie della musica concreta e spostano il linguaggio utilizzato nei lidi della sperimentazione più radicale. Con una line up allargata a quattro elementi più un ospite alla voce (Ken Ueno), gli Ehnahre si lanciano senza rete in un dedalo di suoni, ora urlati ora sussurrati, per comporre diciotto tracce che distillano dalle forme più estreme di metal il succo più intimo e lo traducono in cammei astratti, concentrati di atmosfere doom, black e death ormai private della loro forma solida e restituite come intuizioni impalpabili eppure altrettanto opprimenti e reali. La parte del leone sembra farla proprio l’utilizzo del già citato piano affidato a Jared Redmond, libero di muoversi al di fuori di gabbie ritmiche o scale predefinite e, proprio per questo, perfetto sparring partner per le intemperanze dei membri storici McGuire e Donoso. Le chitarre distorte (affidate a Richard Chowenhill), grevi di saturazione e a tratti deflagranti, sono presenti, ma non seguono percorsi prevedibili e quando irrompono lasciano il segno con ancor più veemenza, ad aumentare a dismisura la sensazione di minaccia incombente (come nel caso di “The Black Tread Of The Earth”). In definitiva, Douve non è di  certo un disco facile o adatto a chi non sia in qualche modo preparato a simili contesti, ma si pone in modo naturale e non forzato. È ostico per natura insita e non per posa artefatta, per cui risulta anche meno pretestuoso e ben più apprezzabile di tante stramberie nate e pensate per far scalpore. Noi continuiamo a tifare per loro.