Easy Answers (for Perfect Nightmares)
In memoria di Carlo Anceschi.
The age of great symphonies
is over now
Rolf Jacobsen
Carlo mi aveva dato quel nastro (rigorosamente registrato dal mixer, come da religione dei Deadheads) una delle volte in cui eravamo andati a vagare in Appennino, come avevamo cominciato a fare nel 1997. Girando su YouTube mi imbatto nell’audio di quel concerto dei Grateful, a Mountain View, California, settembre 1995.
Con Carlo eravamo compagni di musica camminate in montagna, suonavamo nei boschi con quello che capitava a tiro, rami, sassi, stavamo in silenzio per ore, ascoltavamo free, psichedelia, jazz. Siamo stati anche negli Stati Uniti, dove lui aveva vissuto vent’anni circa, nel 2002. L’accoglienza a casa di Chimpa (Jim Powell, un poeta laureato) dopo un volo transoceanico furono pipe di erba e un Sun Ra selvaggio a volume sparato. Da lì cominciò un effetto film che non mollò la fottuta presa per quattro settimane, complici le potenti fragranze della Humboldt County, i piatti strabordanti e unti nei locali lungo le strade infinite, i sorrisi limpidi dei vecchi a Coos Bay, i paesaggi tra California del Nord e Oregon, alberi che facevano immaginare antiche presenze di giganti e un giallo troppo giallo per essere vero. Lo sguardo opaco dell’America si rifletteva nelle pupille assenti di Paul, che aveva la sua serra di medicina verde grazie alla prescrizione medica. L’America è troppo grande per dirla in un romanzo, in una poesia, figuriamoci in uno sputo di appunti estemporanei. L’America è l’abisso della nostra meraviglia, l’incubo del nostro migliore stupore, sono le risposte facili alle nostre peggiori domande, i granai dove marciscono le nostre paranoie più fertili. Ho sempre pensato che ci dovrei tornare; se ricapitassi in California del Nord, vorrei vedere due cose: com’è ora l’Ashkenaz, dove ogni lunedì all’epoca c’era la serata Dead con una selezione dei nastri cui accennavo all’inizio, e un sacco di rimastoni che ballavano, chi anche in carrozzina, avvinghiati con disperata tenerezza a quel sogno perduto, oppure semplicemente in fuga dalla dittatura della Pepsi formato famiglia e del mega Suv, dal cielo plumbeo della tv via cavo. E poi Amoeba, semplicemente il miglior negozio di dischi del mondo, dove ricordo che trovai, tra il mare di dischi che mi portai a casa, Infrantumi degli Starfuckers a 99cents. E pure i Two Dollar Guitar; ecco, l’epoca delle sinfonie è finita e noi, non ricordiamo nemmeno da quanto, ci ritroviamo con una sdentata chitarra da due dollari in mano, a balbettare inni, orfani di qualsiasi appartenenza che non sia quella dei ricordi della grandezza passata e del sangue, come indiani in una riserva. Appesi a quattro stracci di retorica, mentre fuori il vento dell’indifferenza scassa tutto. Custodiamo senza più tremare cose che abbiamo scordato di avere, che la musica a volte ha la grazia di disseppellire. Tra le varie avventure di quel trip on the road nella Grande Distanza Americana ci furono anche nove giorni di trekking nella Sierra, senza tornare nella civiltà, con cibo razionato, vitamine psicoattive, camminare ore e ore, laghi abbaglianti, dormire in tenda. Io, Carlo, Mancino, Chimpa e Ciclamino. Mancino adesso vive in Giordania, Carlo è morto, Chimpa sta sempre a Berkeley. Gli altri, che poi sono (siamo) due, fanno quello che possono, non fanno quello che non possono, dimenticano quello che vogliono, forse non si dimenticano quello che una volta potevano. Quando vivevo in Guatemala (2009, andai sei mesi ad insegnare italiano a 2700 metri s.l.m, al confine col Chiapas), un giorno alla porta di casa bussò una coppia di francesi che viaggiava a piedi; erano partiti da Miami: raramente ho visto tanta luce in quattro occhi, ma questa è un’altra storia. All’ottavo giorno un colpo della strega fulminante al Lago Senza Nome (That place spooks me, diceva Carlo la notte prima) mi bloccò senza ammettere repliche. Eravamo a due giorni di cammino dalla base. Fu l’occasione per il primo e unico viaggio in elicottero della mia vita e per un soggiorno di un paio di giorni in un didascalico motel americano a Sonora con tanto di Police Line Do Not Cross. La cassetta non la ascolto da una vita, ma quello squarcio nel buio, che riscopro in un venerdì di fine maggio diciotto anni dopo quel viaggio e venticinque anni dopo quel concerto, mi fa ancora lo stesso effetto della prima volta.
Un cucchiaio di miele mortale, un assaggio di un veleno che doveva provenire da un paradiso remoto, indicibile e bellissimo. Lo stesso posto dove siamo stati tutti almeno una volta, anche se portiamo sulle spalle la condanna dell’oblio e del non saperlo (più?) dire. Dopo un’ora e quarantasette minuti partono i Monaci di Kyoto con le loro frequenze ultraterrene, in devota solitudine a toccare cumulonembi e a spiegarci la buddità; poi entrano, elettrici e folli, i Grateful Dead, facendo fiorire fulmini e magnifiche minacce, e per nove minuti (Drums-Kyoto Monks-Space e poi la beffarda, consolatoria uscita in Easy Answers) quella cosa che ci affanniamo a chiamare “io” diventa una grossa, indifferente, meravigliosa nuvola nel cielo senza ostacoli del Montana dove non sono mai stato e dove Carlo era cresciuto.
Carlo Anceschi (1952-2016), nato a Scandiano ed emigrato nel 1956 negli Stati Uniti, è tornato in Italia nel 1980 stabilendosi da allora a Reggio Emilia. Laureato a Berkeley in California in Scienze della terra, ha insegnato Lingua inglese all’Università di Modena e Reggio, ed è stato redattore della Berkeley Poetry Review. Ha pubblicato Chi altro c’è qui con noi?, Primavera/Quaderno di traduzioni, entrambi con Bohumil.